Una certa sociologia ultras è solita scatenarsi ai margini di qualche evento di cronaca nera: libri, inchieste, fiction si avventano sul corpo ancora caldo dell’ultima violenza legata al mondo del tifo.

Fosse solo per la distanza da suddette spettacolarizzazioni mediatiche, va presa con interesse la ricerca di Pierluigi Spagnolo, una storia del movimento ultras italiano appena edita da Odoya.

Un lavoro che ha il pregio di inserire il fenomeno ultras nella sua prospettiva storica: gli ultras nascono contestualmente al movimento studentesco del ’68.

La relazione tra mobilitazione sociale e nascita del tifo organizzato consente una comprensione del fenomeno più approfondita del consueto livello medio giornalistico, come vedremo. Ma anche la strumentazione metodologica utilizzata appare convincente.

Gli ultras, talora descritti come “padroni del pallone”, sono al contrario un pezzo del sistema calcio: «per cercare di comprendere cosa siano davvero, bisognerebbe innanzitutto abbandonare la zavorra dei pregiudizi e le visioni manichee del fenomeno».

Ogni fenomeno sociale andrebbe studiato con laicità e apertura mentale, un’ovvietà spesso dimenticata quando ad essere al centro della ricerca sono i tifosi di calcio. La devianza, sovente sinonimo di violenza, è l’unico parametro entro cui ricondurre le sociologie del fenomeno ultras.

Nel merito, invece, bisognerebbe a questo punto porsi una domanda: esistono ancora gli ultrà?

La questione non si presta a facili sentenze. Il libro di Spagnolo ci fornisce una possibile chiave di lettura: nati dentro una specifica relazione sociale (la mobilitazione politica degli anni sessanta e settanta), evoluti sulle ceneri di questa, come possono sopravvivere in un paesaggio fatto di estrema individualizzazione e progressiva a-socialità? Il movimento ultras, nel suo complesso, conosce il medesimo declino di altri e più importanti fenomeni aggregativi similari. In tal senso appare contraddittoria una delle tesi espresse nel libro: «le curve degli stadi rappresentano ancora il luogo di aggregazione e militanza di massa. […]

Le curve degli stadi finiscono per caratterizzarsi come uno degli ultimi luoghi di incontro e aggregazione collettiva dove ci si possa ancora sentire parte di una comunità». E’ vero, lo sono state, ma non è detto che lo siano ancora, almeno nelle forme che abbiamo conosciuto. La disillusione e la progressiva individualizzazione del tifo non fa distinzione tra i settori dello stadio.

Anche la curva, insomma, vive il suo processo di atomizzazione. Volente o nolente, la perversa combinazione tra finanziarizzazione e mediatizzazione del calcio procede travolgendo qualsiasi ostacolo umano. Alla messa in scena televisiva serve un contesto di pubblico, altrimenti lo spettacolo calcistico perde l’aura di “evento” necessaria alla sua mercificazione. Lo stadio deserto fa paura, in primo luogo, alle stesse televisioni. Questo pubblico non deve però essere una collettività più o meno organizzata: il rischio di rovinare la scenografia è troppo forte per poter essere permesso.

Ecco perché il pubblico continua ad essere oggetto (pagante), ma non può più essere soggetto del sistema calcio. Gli stadi, attraverso l’opportuna trasformazione “all’inglese”, non andranno incontro a svuotamento. Al contrario, il pubblico continuerà a riempire spalti non più abitati da tifosi.

Altrove il processo è giunto al suo compimento transitorio; in Italia è ancora in fase di attuazione. Ma la dinamica appare evidente: il combinato disposto tra repressione e esclusivizzazione degli stadi non ha come obiettivo l’espulsione del pubblico, ma la trasformazione di questo in spettatore-consumatore dell’evento. In soggetto, cioè, disorganizzato e disancorato da qualsiasi forma di riconoscimento collettivo.

Ci si può ribellare a tutto questo, ma difficilmente sarà dagli stadi che partiranno forme di ribellione a una dinamica che investe la società nel suo complesso.

Le curve sono infatti, come si ripete spesso, degli “spaccati sociali”.

E’ vero, al patto di comprendere pienamente l’ambivalente definizione. Rappresentano quello che c’è, non quello che potrebbe esistere, e in tal senso si limitano a fotografare una situazione data, riproducendo nel mondo del calcio ciò che avviene su altri piani fuori dallo stadio. Sono dei contenitori, e non delle avanguardie sociali.

Conterranno sempre di più quello che si muove fuori da esse, nel bene come nel male.