Racconta Gianfranco Rosi che la più grande difficoltà, e forse anche la maggiore fatica del suo nuovo film, Notturno, terzo titolo italiano del concorso veneziano e da oggi nelle sale, è stata la luce. Nei luoghi dove ha girato, lungo i confini di quel Medio Oriente che nella percezione collettiva è divenuto un’unica zona di guerra, distruzione, dolore la luce era una sfida, si doveva attendere il momento giusto, la temperatura del cielo, il colore dell’alba, la nebbia o il chiaro dell’orizzonte. Non è semplicemente una questione «tecnica» – pure se lo sguardo di Rosi in macchina è sempre molto esigente – si tratta piuttosto di cercare in quei paesaggi qualcosa che non è esplicito, non una «bellezza» come si intende che pure c’è e a volte è persino sfacciata, ma un sentimento della vita invisibile, che rimane fuori dall’eccezionalità degli eventi, da quanto ci siamo abituati a vedere nella rappresentazione di quei Paesi. Libano, Siria, Kurdistan, Iraq, le terre di combattimento, di armi, attentati, violenza. Da cui il film è attraversato costantemente ma in altri gesti, in altre situazioni; le armi crepitano in lontananza, da qualche parte nel silenzio di una sera illuminata dal fuoco del petrolio, i colpi accompagnano i movimenti dell’uomo che scivola sul fiume con la sua barca. Il conflitto deflagra nei silenzi e nei ripetuti obblighi del giorno, tra le memorie dei bambini e la brutalità di un «dopo» che appare impossibile.

ROSI nel suo cinema ha sempre prediletto un confronto in sottrazione, anche in quei film di messinscena più evidente – come erano Sacro Gra, Leone d’oro nel 2013 e Fuocoammare (2016) con cui ha vinto l’Orso d’oro a Berlino – ma questo non significa che sfugga alla realtà. Cosa filmare del mondo, del tempo che ci appartiene, dei sentimenti che lo muovono e insieme ne vanno oltre fa parte della scommessa di un cineasta, del suo gesto di fare cinema e Rosi lo mette con lucidità al centro del proprio lavoro, in un punto di vista che è sempre strabico – e questa è la differenza più importante – rispetto alle convenzioni, non interessato a registrare l’attualità in quanto tale, come statistica, categoria, astrazione o a posizionarsi sulla retorica del dolore per quei soggetti sensibili, i migranti in Fuocoammare e, appunto, gli abitanti della guerra qui. La sua macchina da presa costruisce con lentezza negli anni – per Notturno ne ha trascorsi diversi nelle zone in cui ha girato – cercando una relazione che non è mai scontata con le persone, i paesaggi, i vissuti che sono sui bordi per rimetterli dentro l’inquadratura, per renderli narrazione e immagine.
Notturno per questo è un magnifico film sul Medio Oriente tra le tragedie infinite dell’oggi a partire dalla storia che le ha provocate, gli imperi, il colonialismo e il suo post di accordi internazionali, e soprattutto di quanto accade e continua a accadere ci dice il sentimento di chi lo vive ogni giorno, di chi ne è parte e con questo deve confrontarsi. Esistenze illuminate con delicatezza, mai imposte dalla necessità di una «storia» e per questo obbligate a mostrarsi.

IL VIAGGIO di Rosi si muove su quei confini, la sua macchina da presa osserva e aspetta con la pazienza spesso dimenticata. Incontriamo le giovani peshmerga curde, ragazze che combattono in un momento di riposo: qualcuna legge, qualcun’altra si scalda le mani sul fuoco. La guerra è la loro vita, è un «fare» che la determina, che vi appartiene come se non fosse più un’eccezione.

LE CASE sono macerie, le parole delle piccoli yazidi ci dicono un terrore da cui i bambini sopravvissuti agli stermini dell’Isis cercano di prendere la distanza nei disegni, nel racconto. Ferite spaventose, cosa sarà il loro futuro? Il piccolo cerca di trasformare il suo trauma, i disegni sono sangue, morte, la famiglia è stata sterminata come quelle di tutti gli altri.
Alì è un ragazzino che deve mantenere molti fratelli e sorelle,c’è chi come i ricchi cacciatori lo paga per fare il cane da riporto. Una madre aspetta la telefonata dalla figlia che l’Isis ha rapito, nei messaggi vocali chiede soldi, poi si contraddice, forse si è convertita: cosa significa provare a salvarsi?
I prigionieri dello «stato islamico» sono ammassati in celle strette, vestiti di arancione, nei campi le loro donne vivono coi figli tra il fango, non vogliono che nessuno si avvicini. In una casa una giovane coppia si corteggia con allegria, cantano, scherzano poi lui esce a chiamare i fedeli per la preghiera nel rito più severo

NON CI SONO cartelli né indicazioni a orientare noi spettatori, seguiamo Rosi, ci muoviamo con lui in una ricerca che nella sua forma è una dichiarazione politica come tutto ciò che prova a scompigliare le certezze della visione, capace di provocare conoscenza, di opporsi agli stereotipi.
Cosa racconta allora Notturno? Una «normalità» di tutti coloro che vivono in quelle zone e che è ancora più terribile delle immagini di un conflitto. E ci pone domande con forza, destabilizza le certezze delle analisi o delle spiegazioni – etniche, religiose, territoriali – con la presenza di chi nel racconto della guerra rimane sempre fuori campo. Li rende reali, facendoli irrompere nella nostra distanza, tra sguardi, fatiche, gesti di ogni giorno che si fanno cinema.