Degrado, invisibilità, penombra così vengono raccontate le periferie: una sorta di oscurità che si contrappone alla luce della città. Oppure sono la promessa di una poesia che non arriverà. È l’assenza, servizi, infrastrutture, futuro, a dire ciò che sono.

IL LUOGO è la conseguenza di un’eredità: infatti, in Italia l’istruzione, il reddito da lavoro e la ricchezza continuano a ereditarsi dai genitori ai figli. L’impatto di diversi fattori – come la famiglia d’origine, la ricchezza, il luogo di nascita, le scuole e i quartieri frequentati del Nord o del Sud – determinano il 90% del reddito. Elementi che diventano determinanti per favorire la crescita e la percezione della propria competenza, fiducia e autostima. Quindi la periferia è un destino? «La periferia ti invecchia – spiega Davide Sessa di Mirafiori -, è una senilità precoce, feroce, interiore. Smarrisci il significato. Vivi solo dei cinque sensi, non c’è altro, non c’è oltre. In periferia non abbiamo perso il lavoro, la casa, la comunità, ma il senso della vita, per questo la periferia è diventata esistenziale. Ciò che rende la vita insopportabile non è l’assenza delle cose, ma l’assenza di destino e di senso».
Tuttavia, questa è solo una parte della storia. Ogni quartiere di periferia ha un’altra storia da raccontare come sottolineano i ricercatori che hanno realizzato la mostra Mirafiori dopo il Mito,  a venti anni dal divorzio produttivo del quartiere con la Grande Fabbrica (fino al 25 ottobre al Polo del 900 di Torino) i cui primi segnali erano arrivati già nel settembre del 1980 quando la Fiat inviò 14.469 lettere di licenziamento ai propri dipendenti.

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UNA MOSTRA che si apre con un plastico che mette in evidenza la variabilità interna del quartiere: Mirafiori non è solo palazzi popolari, non è solo operai, non è solo Fiat. Al suo interno il quartiere ha, come spiega Federico Guiati, le aziende più innovative della città, c’è un crescente numero di imprese individuali e di laureati. Poi c’è la vivacità del territorio sotto la spinta della Fondazione della Comunità di Mirafiori, l’unico soggetto che agisce in modo collettivo.
Un luogo plurale, Mirafiori, che viene raccontato attraverso la voce dei suoi abitanti, con video, fotografie, mappe che spiegano perché il declino non è diventato degrado. L’esposizione dà voce a chi ha vissuto il quartiere, come la signora Rosa che ricorda con nostalgia i cortili pieni di bambini o chi, come Dino, rievoca che il rumore di sottofondo delle presse si interrompeva solo nel mese di agosto, ma sottolinea anche la maggiore tranquillità della zona rispetto agli anni dell’eroina e delle violenze.

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Un rewind degli anni in cui la festa di San Luca si concludeva con i fuochi d’artificio, quando «il tuo problema era uguale al mio», gli anni in cui il quartiere era una comunità di destino, gli anni in cui la fabbrica era il quartiere (le stesse case erano di proprietà Fiat), gli anni in cui la fabbrica aveva più abitanti del quartiere in cui era inserita (60 mila contro 40 mila), gli anni in cui la fabbrica era un modello o un nemico, comunque un termine di paragone. Oggi se sei senza lavoro, racconta Roberto Venezia, «non capisci se dipende dall’azienda, dalla Volkswagen o dalla Cina». Mirafiori, secondo Bruno Manghi, «è una storia che continua a dispetto della Storia». Una storia che è andata avanti, ma in termini più biologici che sociali, in vite vissute in modo rigorosamente individuale: ci sono ancora gli operai, ma non c’è la classe operaia. La rassegna segnala questo cambiamento, addirittura a margine della presentazione il rappresentante di Fca ha lamentato la mancata citazione dei dati sugli investimenti dell’azienda a Mirafiori (1,5 miliardi). È un segno di un tempo che è cambiato: qui si è avverata la profezia di Margaret Thatcher: «la società non esiste. Esistono solo gli individui».

PER QUESTO Mirafiori non esiste, esistono solo gli individui che popolano questo pezzo di territorio. Restano quei cinque milioni di mq: un confine che non è più da difendere, ma da trasformare in luogo d’incontro. L’involucro è lo stesso, i contenuti sono cambiati: categorie meno definite, ma da costruire insieme. Non più un mito, non come cantano i giovani rapper del quartiere: «dopo il mito ci sei tu», ma noi. È questo l’unico futuro possibile di Mirafiori.