Le avanguardie storiche e le neoavanguardie, il ’68 e il suo rapporto con le pratiche artistiche, l’arte pubblica e la critica istituzionale, l’arte contemporanea e il suo rapporto con il capitalismo. Questi sono i temi principali intorno a cui ruota l’ultimo libro di Stefano Taccone, La radicalità dell’avanguardia appena uscito per ombre corte (pp. 130, euro 11), una serie di saggi, densi e brillanti, in cui lo sviluppo del discorso è costruito intorno a due capisaldi del pensiero critico degli anni Settanta: L’alienazione artistica di Mario Perniola (1971) e Teoria dell’avanguardia di Peter Bürger (1974). Ma a guidare il percorso di Taccone nei movimenti continui dell’arte è anche e soprattutto un terzo protagonista, il lavoro culturale e politico di Guy Debord, e quindi la teoria e la pratica dell’Internazionale situazionista.

LE AVANGUARDIE storiche, questa la tesi principale del libro, non erano dei semplici movimenti artistici, ma ruotavano intorno a progetti di trasformazione radicale dell’esistente, e coniugando Marx con Rimbaud, puntavano alla trasformazione del mondo e al cambiamento della vita quotidiana. Le neoavanguardie invece, così Bürger e prima di lui l’Internazionale situazionista, hanno disinnescato il portato politico-esistenziale delle prime avanguardie – Dadaismo, Surrealismo e movimenti sovietici – operando una riduzione formalista delle stesse perfettamente consona al mondo spettacolare del neocapitalismo degli anni ’50 e ’60.
Da questa prima filiazione spuria delle neoavanguardie seguirebbe anche la successiva rottura postmodernista che a sua volta trasforma in pastiche il formalismo sperimentale delle neoavanguardie. E ancora, dopo una prima spinta neoconservatrice coincidente con il ritorno all’ordine della pittura, il neoliberismo postmoderno avrebbe catturato le straordinarie capacità di rebranding dell’arte, puntando sull’arte relazionale e pubblica, in quanto lubrificante sociale in grado di mediare i conflitti.

Tornare dunque alla struttura costitutiva delle avanguardie storiche, ovvero il progetto di trasformazione radicale dell’esistente attraverso la realizzazione dell’arte stessa, significa cercare una risposta all’insoddisfazione di una vita che eccede la gabbia neoliberale e non può accontentarsi di un’arte fintamente impegnata. Rimane la domanda su dove rintracciare spunti di quella radicalità originaria, anche se qualche strada possibile viene indicata. Eppure, a ben guardare, questo racconto dell’arte segue una certa storia moderna tutta costruita intorno alla dialettica e a una particolare idea di tempo, dalla quali dipende un certo catastrofismo contemporaneo, così come il postmoderno dipende dal moderno.

QUELLA DIALETTICA e quel tempo sono crollati proprio grazie alle lotte anticapitaliste degli anni ’60 e ’70 che hanno sancito la fine del fuori e l’affermazione della differenza. Ciò che ne è seguito però non è, diversamente da come hanno pensato alcuni seguaci di Hegel, una colonizzazione totale del mondo da parte del capitale, lettura dalla quale discendono la liquidazione dell’arte in quanto capitale, la soluzione neoprimitivista ed ecologista, e quella ironica e cinica «à la Baudrillard». Perché il capitale non è mai un Moloch, ma sempre un rapporto di forza tra chi comanda e chi resiste. Questo significa che è sempre possibile produrre bruciature e vie di fuga sulla superficie del capitale, e qui certamente sia le avanguardie storiche che le esperienze più radicali e avvertite dell’arte contemporanea possono suggerire come inventare forme di vita e di lotta dentro e contro il capitale.
(Il libro verrà presentato domani all’Asilo di Napoli, alle ore 18)