Tre storie che interrogano i sentimenti, ma prima di tutto quanto siamo disposti a credere a ciò che raccontiamo a noi stessi come agli altri, a cominciare dalle tante bugie, per rendere meno gravoso il peso a volte insopportabile delle nostre scelte se non dell’esistenza stessa. Ci sono questi interrogativi ma anche molto altro – quesiti che ruotano intorno al desiderio, al potere, alla necessità come, talvolta all’impossibilità dell’incontro – nelle storie di Omri e Mor che si conoscono in Bolivia, prima di amarsi in Israele dopo la morte del marito di lei, del dottor Caro, un vedovo attratto da una giovane specializzanda che si spingerà oltre la soglia del lecito, di Ofer, un attempato amante dei rave che decide di scomparire nel nulla durante una passeggiata in campagna con la moglie. Questi i personaggi delle tre storie che animano Le vie dell’Eden (Neri Pozza, pp. 250, euro 18, nella sontuosa traduzione di Raffaella Scardi) il nuovo romanzo di Eshkol Nevo che lo scrittore israeliano ha presentato nei giorni scorsi nel nostro Paese.

Si ha l’impressione che nei suoi ultimi libri («Tre piani», «L’ultima intervista» e questo) stia svolgendo una sorta di indagine intorno alla verità e i molti volti che può assumere per ciascuno di noi.
È verissimo che in particolare in questi libri c’è un tentativo esplicito di cercare la verità anche quando è nascosta in modo molto profondo. Ma se ci penso bene probabilmente già con le prime cose che ho scritto, in particolare Nostalgia il mio romanzo del 2004, ho puntato sul fatto di raccogliere più voci, di costruire una «struttura democratica» della narrazione che in qualche modo facesse emergere come «la verità» significhi cose diverse per ciascuno. In quel che scrivo ogni personaggio è in grado di esprimere la propria versione delle cose e la medesima situazione viene osservata da molteplici punti di vista. Penso che questo modo di guardare alle cose sia frutto del contesto nel quale sono cresciuto, perché i miei genitori non sarebbero potuti essere l’uno più diverso dall’altro e avere opinioni tra loro più lontane su ogni cosa, a partire dall’educazione dei figli per finire su quale film vedere. Credo poi si tratti anche di un tema di grande attualità, nel senso che oggi dobbiamo tutti guardarci dalle fake-news, chiederci cosa ci sia di vero e cosa no in quanto ci viene raccontato, quali gli elementi autentici in mezzo alle molte storie che ci rifilano le campagne d’informazione.

Lo scrittore israeliano Eshkol Nevo

Uno dei personaggi di «Tre piani» affermava che «il nostro maggior segreto è la vulnerabilità». Ed è proprio ciò che invece si rivelano l’un l’altro Omri e Mor nella prima storia di «Le vie dell’Eden». Ancora una volta è quanta verità si mette nel rivelare questa parte di sé a decidere della nostra vita?

Nel libro succede proprio questo: Mor riconosce la sofferenza che c’è in Omri, un uomo che è stato tradito, in qualche modo calpestato. E per il solo fatto che vede tutto questo e non si ritrae, lo aiuta a sollevarsi a riaffacciarsi alla vita. E lui fa lo stesso con lei che è in fuga da un marito ossessivamente geloso. Questa sorta di guarigione che riescono a portare l’uno nella vita dell’altro cambierà per sempre le loro esistenze. Che è poi forse quello che accade a chiunque legga un romanzo: in quelle pagine finirà per incontrare qualcosa della propria vulnerabilità, qualcosa che in genere tiene ben nascosto, e scoprendola così quasi per caso, sentendosi per questa via meno solo, potrà forse perdonare se stesso e procedere con passo più lieve.

L’atmosfera nella quale possono emergere queste verità ricorda quasi il noir classico, viene da pensare a Chandler: niente di ciò che apprendiamo è vero, è tutto vero o è solo parzialmente vero. Comunque per scoprirlo si deve passare attraverso una cortina fumogena che ci annebbia la vista. Non si può procedere che così per distinguere il falso dal vero?

Con la mia editor israeliana abbiamo un’abitudine: prima di cominciare a lavorare sul manoscritto abbiamo una specie di conversazione strategica nella quale le racconto cosa voglio che sia il libro. E poi si parte. Le sto dicendo questo perché in effetti in quel dialogo, che sta alla base del lavoro, era emerso proprio come in questo caso volevo che fosse presente la dimensione del thriller, un’intensità e un’energia in grado di trascinare chi legge dentro la storia. Però è altrettanto vero che non volevo proporre un esito in bianco e nero, dove era fin troppo facile definire i ruoli o le responsabilità, quanto piuttosto lasciare la risposta aperta, l’interpretazione di quanto accaduto il più possibile libera. Diciamo che per raggiungere lo scopo questa volta credo di aver davvero incrociato i generi: un po’ di psicologia, un po’ di thriller.

Questo romanzo arriva dopo due anni di pandemia e sembra dare voce ai corpi, al desiderio, al bisogno di un contatto fisico che è mancato per lungo tempo. Alla fine del libro ha ritrovato questa dimensione che le tre storie sembrano esprimere?
Ho scritto i tre racconti rispettivamente durante il primo, il secondo e il terzo lockdown cercando di ricordami cosa mi attendeva al termine del tunnel che stavo attraversando: il gusto della vita che avremmo ritrovato tutti dopo quella prova durissima. E l’idea di fondo era come riavvicinarsi agli altri dopo questo isolamento forzato. Non stavo pensando al sesso, o non specificamente, ma proprio alla dimensione del contatto con le altre persone. Il resto credo di averlo lasciato a quanti avrebbero letto il romanzo. E così, le prime due lettrici con le quali ho parlato mi hanno detto cose che erano l’una l’opposto dell’altra: la prima che le storie l’avevano fatta riflettere sulla fragilità degli esseri umani, la seconda che le avevano messo una gran voglia di fare l’amore.

Durante la pandemia in Israele si è insediato un nuovo governo, anche se per uno scrittore di sinistra come lei lo scenario sembra restare piuttosto cupo.
In realtà dirò qualcosa che magari potrà stupirla, ma vengo da un’esperienza molto forte, una lotta che ha avuto successo e alla quale ho partecipato prendendo più volte posizione insieme ad altri e manifestando ogni settimana per più di un anno per allontanare dalla guida del Paese Benjamin Netanyahu che stava imprimendo una svolta antidemocratica alla politica nazionale. Ho partecipato ai cortei insieme alla mia figlia maggiore, sono intervenuto sui giornali, ho scritto e firmato appelli senza timore di espormi, ma oggi posso dire che la battaglia è andata a buon fine e ha dimostrato che le cose possono cambiare.

In Israele vive una folta comunità proveniente dalla Russia come dall’Ucraina, come valuta l’invasione voluta da Putin e quanto sta accadendo in queste ore?
Come scrittore ci tengo a dire ciò che penso nel modo più chiaro, a differenza della diplomazia israeliana che da una settimana sembra che stia cercando di dire qualcosa, ma poi non lo fa mai. Anche se si ha solo una conoscenza minima o superficiale della storia del Novecento, è facile riconoscere l’intreccio brutale di malvagità e manie di grandezza che anima Vladimir Putin. Penso sia un uomo pericoloso e che questa situazione terribile e drammatica possa anche superare i confini dell’Ucraina. Di fronte ad atti del genere bisogna essere forti e resistere, manifestare in maniera chiara, netta, la propria opposizione. Vengo da una terra che ha conosciuto e conosce ancora oggi tanti conflitti, ebrei e palestinesi sanno bene cosa sia la guerra e quanto valore abbia non smettere mai di battersi in nome della pace. Ed è quello che dobbiamo fare anche in questo momento.