Tutto ciò che percepiamo del mondo assieme al nostro modo di viverlo, dargli forma e cura, rappresenta il paesaggio. Quando ci muoviamo dal nostro privato, dalla vista della nostra finestra all’uscire da casa o dal luogo di lavoro, tutto è paesaggio. E come tale dovrebbe essere oggetto delle attenzioni e di azioni progettuali consapevoli e di qualità. Solo sul cielo e la sua luce possiamo agire poco. Sul resto del paesaggio abbiamo tutti delle responsabilità dirette, che derivano dai nostri atti e dalle omissioni.
In questo senso, si inquadra anche il contributo di Luciano Violante a questo convegno, in un ragionamento che coinvolge il paesaggio all’interno della dialettica diritti\doveri, che informano i caratteri di una civitas. Siamo soliti dire che i paesaggi di una società ben rappresentano i suoi livelli di democrazia e di potere, oltre che la sua cultura. Le sue qualità e condizioni, nella bellezza o nel degrado, prendono forma dalle interazioni tra potere, società civile e ambiente.

Analogamente i giardini possono esserne il momento di sperimentazione e di esercizio all’innovazione. Anche Franco Zagari, con il quale condivido questa iniziativa, sostiene una visione di paesaggio come «quella qualità particolare di un luogo nella quale si riflettono vari dati della condizione materiale e spirituale di chi lo vive: il costume, la cultura materiale, le aspirazioni, il comune senso dell’equità e della bellezza, una visione della storia e delle tradizioni, e al tempo stesso di futuro, la reinvenzione quotidiana di una nuova organizzazione del lavoro e di una nuova capacità di impresa. Qui si pone l’ipotesi che intendiamo proporre con questo colloquio: la necessità di promuovere con urgenza una sperimentazione progettuale attuativa che definisca nuovi assetti del paesaggio, un’ampia e articolata campagna di studi, ricerche, progetti per uno sviluppo equilibrato del nostro habitat».

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Gli attori dell’ambiente
Una prima singolarità tutta italiana sembra costringerci, ogni volta che parliamo progetto di paesaggio, a dover quasi iniziare da zero per ridefinirne uno statuto e giustificarne l’esistenza. Sembra che ognuno di noi sia sempre tenuto a dare definizioni del proprio essere, a esprimere margini di agibilità della propria azione, a giustificare le proposte rispetto a contesti altri, storici, fisici, sociali, quasi sempre contrari od ostili, per rimarcare identità e differenze. Per contro, anche in paesi di condizioni economiche e culturali omologhe, il paesaggio rappresenta un’attività consolidata. Realizzare nuovi progetti, mantenere e far evolvere il patrimonio esistente, quanto gestire tutte le problematiche ambientali del territorio, incluse quelle di base, fa parte di una prassi quotidiana rispetto alla quale si fondano aziende, si costruiscono competenze di vario livello, si identificano attori per i quali il progetto di paesaggio rappresenta una necessità di esistenza.
Nuovamente Zagari, in merito a ciò, tende inoltre a voler demistificare l’assunto troppo condiviso che vede l’impossibilità di realizzare paesaggi contemporanei a causa della crisi economica attuale, ribaltando completamente il punto di vista. «La lunga crisi che stiamo vivendo ha avuto inizio – sostiene – per motivi economici e finanziari, ma è di fatto diventata una mutazione di costumi, comportamenti, abitudini, vizi. La questione è posta perché è urgente cercare di reagire a uno stato di crescente grave degrado del nostro habitat urbano, rurale, naturale, perché è proprio questa, secondo noi, una delle cause più insidiose che alimentano la crisi, quindi più una causa che un effetto. Un progetto di paesaggio riconosce le vocazioni di un luogo a liberare energia e le mette in relazione, rivelandone tutto il potenziale di coinvolgimento di chi abita, visita, comunque conosce un luogo attraverso questa sua qualità. La domanda da porre è piuttosto quanto sia il costo sociale, economico, politico di non realizzarlo. Non potrebbe esserci errore maggiore che pensare che il progetto di paesaggio sia solo un progetto di mitigazione o cosmesi. Un progetto di paesaggio agisce realmente, e si pone alla nostra attenzione come un motore efficace di processi attuativi di rigenerazione dell’habitat. La valutazione dei benefici va fatta allora non solo riguardo agli effetti diretti ma anche a quelli collaterali e indotti, che spesso sono assai più rilevanti delle risorse messe in campo».

Fragilità del territorio
La seconda anomalia – che anche diversi tra i partecipanti rilevano con i loro contributi – è la distanza tra le posizioni di conservazione, tutela, salvaguardia, nostalgia e quelle di sperimentazione, reinterpretazione, innovazione, reinterpretazione e futuro.
Nel paesaggio come nell’architettura si perpetua questa miope contrapposizione che non diviene mai una dialettica. Contrariamente alla stratificazione, che è stata per un lungo tratto di storia il motore di quella complessità che tanto amiamo delle nostre città e di questo paese, si è costruita un’opposizione, che si sostanzia spesso più con posizioni di potere che con argomenti reali. E che non rileva la condizione profonda di crisi di molti settori: un’agricoltura drogata dai meccanismi comunitari perversi, un territorio via via più fragile ed esposto al collasso, degli habitat umani deprivati di significati e di qualità, una condizione di rischio diffuso, sia fisico che sociale e di identità.

Analogamente ogni volta che si prova a proiettare una forma innovativa di pensare lo spazio per la collettività, sorgono muri che sembrano giustificare l’impossibilità di attuazione a fronte di mille specificità italiane: una visione forzata della tutela che si affianca all’incapacità di prefigurare scenari diversi, di natura tecnica, estetica, procedurale, scientifica o metodologica.
C’è anche una grande mistificazione che è quotidianamente consumata in nome della partecipazione e condivisione, che coincide invece con il progressivo abbandono del lavoro sul paesaggio dal pubblico verso il privato, attraverso azioni spontanee o organizzate in associazioni. Se il paesaggio è principalmente espressione di una società e il suo sviluppo è un’opera collettiva, alla gestione pubblica, per delega e compito, resta obbligatoriamente l’onere della decisione, della programmazione, del progetto. Di certo, la sensibilizzazione creata dall’associazionismo è un dato di grande rilievo.

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Falsi movimenti
Consapevolezza e condivisione delle scelte, l’empowerment individuale e collettivo sono la base di una società democratica, rispetto ai grandi temi globali quanto sulle scelte locali, e sono di grande rilievo rispetto al paesaggio. Ma la delega progressiva a cui assistiamo si estende verso proposte spesso supportate da surrogati di progettualità, non è risolutiva e appare già stanca. Spesso dietro la temporaneità, il riciclo, lo spontaneismo, si mal cela l’assenza di mezzi e di idee, si mostra una falsificazione dietro la quale non c’è progetto. Un «falso movimento» come ulteriore sconfitta del bene comune e un nuovo rischio di degrado del paesaggio. La risposta alle difficoltà delle amministrazioni non può essere la delega totale. Non si possono demandare le scelte su interessi e beni pubblici, né si può surrogare la necessità di un pensiero politico, proprio perché il paesaggio riguarda il bene pubblico e il benessere delle persone. Coinvolge un’idea sul paese.
Infine un’altra singolarità investe la formazione dei paesaggisti e la conoscenza diffusa del paesaggio nel paese. A fronte di una richiesta crescente di saperi che è oggettivamente in crescita, mancano i luoghi preposti alla formazione di studiosi di paesaggio. Studiosi che possano diffondere conoscenze sul paesaggio secondo prospettive disciplinari diverse, e destinati non soltanto al progetto o al lavoro nelle amministrazioni, ma anche all’alfabetizzazione diffusa su questi temi. Le poche scuole che riuscirono nel 2000 ad avviare dei corsi di studi in paesaggio si sono trovate a fare i conti con un progressivo depauperamento, diverse costrette alla chiusura. Saranno circa mille i giovani paesaggisti che, con attribuzioni professionali riconosciute per legge assai ristrette, si trovano a navigare in una condizione di grande difficoltà, mentre al contrario potrebbero essere protagonisti di una stagione nuova, progettuale e culturale. Di fatto le speranze di tutti noi che guardavamo alla Convenzione Europea del Paesaggio come spinta positiva in questo senso, sono andate deluse. Un paese non dovrebbe credere e investire in un progetto di innovazione come questo?

(Il testo è una rielaborazione dei saggi di Franco Zagari e Fabio Di Carlo contenuti in «Il paesaggio come sfida. Il progetto», Edizioni Librìa, Melfi, 2016)

 

SCHEDA

Il 3 e 4 marzo 2016, presso l’Aula Magna della Facoltà di Architettura di Piazza Borghese 9 a Roma, si terrà il convegno: Il paesaggio come sfida. Progetti sperimentali per una rigenerazione dell’habitat. Paesaggisti, architetti, urbanisti, assieme a figure della politica e della cultura per affrontare un argomento spesso dimenticato o frainteso. Punto di partenza, un libro con lo stesso titolo, che raccoglie la ricerca che il gruppo di lavoro ha condotto, analizzando i testi di circa centoquaranta studiosi, professionisti e amministratori, un Atlante di pensieri e posizioni. Tutto insieme ha lo scopo di parlare ed affrontare le difficoltà del progetto di paesaggio a farsi motore attuativo di trasformazioni per il paese.