I movimenti che si svilupparono intorno al 1968 erano soliti indicare nel “sistema”(riferendosi anche al “socialismo reale”) il nemico da abbattere. Intendendo con questo una totalità articolata del dominio in grado di controllare, manipolare o inibire ogni aspetto della vita individuale e collettiva. Il concetto di sistema si accompagnava solitamente a quello di “integrazione”, ovverosia l’insieme di strumenti, pratiche e istituzioni in grado di assicurare agli sfruttatori la complicità degli sfruttati e in primo luogo di quella classe operaia che Herbert Marcuse aveva dato per definitivamente “integrata”, invitando a volger lo sguardo verso il terzo mondo e gli emarginati. L’espressione “sistema” stava ad indicare come il “tardocapitalismo” fosse diventato molto di più di un “modo di produzione” e degli apparati ideologici e giuridici necessari a farlo funzionare. Si trattava di una intera costellazione di elementi antropologici, psicologici, culturali, capace di corrompere gli animi, così come di penetrare e condizionare ogni singolo ingranaggio della macchina sociale e ogni oscillazione dell’opinione pubblica. I movimenti di protesta davano così la loro versione aspramente critica di quello che era stato il compromesso fordista, puntando essenzialmente su ciò che ne era rimasto fuori.

All’epoca, tuttavia, la perfezione disciplinare e onnicomprensiva del “sistema” era stata decisamente esagerata (come dimostra, del resto, l’alto grado di conflittualità che lo attraversava), poiché è solo con il neoliberismo pienamente dispiegato, alla fine del XX secolo e dopo il crollo dell’Unione sovietica, che essa sembra essersi affermata e imposta come una vera e propria “nuova ragione del mondo”, al termine di una lunga, contraddittoria, storia delle dottrine e delle politiche liberiste, che Pierre Dardot e Christian Laval ricostruiscono in uno straordinario lavoro che reca appunto questo titolo.

Ma cosa è una “ragione del mondo”? Appunto, non semplicemente un “modo di produzione” ( se pure di quest’ultimo Marx non avesse affatto fornito una idea povera ed economicistica come alcuni gli imputano). Né un pensiero egemonico, o un organizzazione tanto efficiente da apparire indiscutibile. Nemmeno una inedita forma di governo sugli uomini o una nuova fede capace di catalizzare aspirazioni e speranze. O forse tutte queste cose messe insieme. Ma soprattutto, per dirla un po’ ruvidamente, è l’affermarsi della ragione dei vincitori in quanto ragione dei vincitori, è il rapporto di forze scaturito dall’esito di un lungo e aspro scontro di classe, esito, per di più, accettato e interiorizzato dagli sconfitti.

Differentemente dalla fine degli anni ’60, “sistema” non si accompagna però più a “integrazione”, (concetto che, nel volerlo rimuovere, ammetteva comunque implicitamente l’esistenza di un conflitto di classe) , ma a una nuova e del tutto antitetica parola chiave: concorrenza (che il conflitto di classe pretende invece di avere sostituito). Nel “sistema della concorrenza” confluiscono felicemente le due necessità che, fin dalle origini, scontando divergenze e controversie politiche e interpretative, avevano attraversato la storia teorica e pratica del liberalismo: la necessità di stabilire le regole per governare la società e quella di garantire l’azione libera e spontanea degli agenti economici, la necessità dello stato e quella del mercato. La concorrenza, la legge suprema del neoliberismo, del resto, non si limita a una pura e semplice regola di mercato, pretende di incarnare principi etici (la meritocrazia) e criteri di buon governo (la democrazia liberale). E’ un modello di relazione tra soggetti che nel suo riferirsi all’agone tende costantemente alla personalizzazione, a enfatizzare la forza e la determinazione dell’io imprenditoriale ( che si tratti di un singolo o di una holding) rispetto ai fattori “sistemici” e statuali che ne condizionano l’azione, che quell’io hanno letteralmente fabbricato. Ma la concorrenza, va da sé, non è a somma zero. A ogni vincente corrisponde sempre uno o più perdenti. Al merito corrisponde la colpa, al successo il fallimento. Alle “vittime di se stessi”, della propria incapacità di calcolo o della propria inerzia, il regime concorrenziale non può offrire, salvo contraddire la sua ratio, alcun principio di “integrazione”, ma solo la possibilità (astratta) di provarci un’altra volta. E’una economia e una politica dell’ “occasione” che si sostituisce a ogni principio di integrazione o di solidarietà. Questa sostituzione non può che porre dei limiti all’esercizio della democrazia, poiché l’applicazione estensiva di procedure decisionali democratiche darebbe voce anche alla vasta schiera dei perdenti, i quali non mancherebbero di mettere in questione le regole della competizione che li ha visti sconfitti. Del resto i teorici neoliberisti più coerenti non hanno mai nascosto che la libertà di competere sul mercato prevedeva una limitazione delle libertà democratiche. Prevedeva, detto altrimenti, la presenza di uno stato e di una politica che per essere “minimi” su un versante, quello della concorrenza e della “libera impresa”, avrebbero dovuto essere “massimi” sull’altro: quello dell’azione di contrasto nei confronti dei fattori politici, sociali, culturali che rifiutano l’inclusione di ogni sfera dell’esistenza e della vita associata nell’arena della competizione mercantile.

Al termine della loro ricostruzione storica, Dardot e Laval concludono che, con il neoliberismo della concorrenza universale, è la forma di capitalismo più totalitaria pervasiva e impermeabile che celebra il suo trionfo. Questo trionfo consiste essenzialmente nell’aver conseguito due risultati: nell’avere impresso tanto all’individuo quanto allo stato la logica, la forma e la finalità dell’impresa. L’individuo, costretto a farsi “imprenditore di se stesso” e investitore del proprio “capitale umano” in seguito allo smantellamento, squisitamente politico, di ogni protezione sociale, genera “autonomamente” la propria disciplina, sorveglia che nulla si discosti dal calcolo costi/benefici e dalla coazione al successo. Gli stati, dismesse le vesti di garanti del quadro generale della concorrenza, si precipitano a loro volta nell’agone. Ingaggiando una aspra competizione per garantire, a scapito dei diritti dei cittadini, delle condizioni di lavoro e della redistribuzione dei redditi, le migliori condizioni di agibilità e di profitto agli investimenti e la massima sicurezza alla rendita finanziaria tramite l’inasprimento dell’imposizione fiscale (che, in questo caso, il neoliberismo si guarda bene dal demonizzare). La competizione tra gli stati europei, resa ancora più brutale dallo stretto ring della moneta unica, finisce col far giustizia di ogni finzione cooperativa e di ogni illusione di equilibrio. Illudersi e illudere che le sovranità nazionali possano proteggere i propri cittadini dalla rapacità del capitalismo globale, come pretendono le diverse varianti del populismo, vuol dire consegnarsi ancor più indifesi al comando senza scrupoli di élites nazionali in competizione fra loro per assicurarsi il sostegno delle oligarchie sovranazionali.

Tuttavia, l’argomentazione di Dardot e Laval nel suo apprezzabile antiriduzionismo, nel tentativo di restituire la razionalità totalizzante del sistema in tutte le sue articolazioni, la quale non si potrebbe ricondurre alla semplice necessità di accumulazione del capitale, lascia che il regime perfettamente oppressivo della concorrenza universale si libri per così dire nel vuoto. Certamente, come sostengono i due autori, è l’esito di una storia, di una strategia di dominio forgiata non già da un disegno diabolico, ma nel corpo a corpo con la contingenza. Nondimeno, senza la natura necessariamente espansiva del capitale, senza la potenza di un valore che esiste solo per valorizzarsi, senza l’ineluttabilità di un processo di accumulazione che reagisce con violenza ad ogni blocco e ostacolo, né la legge della concorrenza, né la logica d’impresa, né la sua interiorizzazione potrebbero spiegarsi. E neanche la violenza nuda e cruda che regolarmente deborda dal quadro della razionalità governamentale. Il che non significa affatto sostenere il carattere puramente economico del liberismo a cui magari potrebbe contrapporsi un più umano liberalismo politico, come qualche anima bella continua a sostenere.

Man mano che La nuova ragione del mondo si avvia alla sua conclusione cresce la sensazione di trovarsi di fronte a un ordine senza residui e del tutto padrone delle contraddizioni che lo attraversano, laddove governo di sé e governo degli altri si fondano e si fondono l’uno nell’altro in un sistema perfetto di oppressione e di controllo senza scampo. Al quale gli autori contrappongono un generico processo di soggettivazione diverso e antitetico a quello neoliberista che comporti il rifiuto della logica d’impresa e della concorrenza quale modalità di “condotta” verso di sé e verso gli altri, rifacendosi al concetto foucaultiano di “contro-condotta”, intesa come resistenza costruttiva alle prescrizioni del potere. Se è pur vero, come sostengono Dardot e Laval, che la crisi finanziaria non ha affatto “cantato il requiem del capitalismo neoliberista” e che non esiste un soggetto bello e pronto in grado di seppellirlo, è anche vero che “contro-condotte” e “invenzioni collettive di nuove forme di esistenza” continuerebbero a poggiare a lungo sul vuoto delle buone intenzioni se la crisi non avesse portato al fallimento folte schiere di “imprenditori di sé stessi” e se i listini del “capitale umano” non avessero subito un vertiginoso crollo. A questo dato di fatto, che non può aver lasciato indenne l’interiorizzazione della ratio neoliberista, si aggiunge quella caratteristica della forza lavoro contemporanea che si è vista restituire (in quanto “impresa”) gli strumenti del proprio lavoro allo scopo di esercitare spontaneamente lo sfruttamento di sé, vedendosi precludere, al tempo stesso, la possibilità di affidare a una qualche rappresentanza politica la propria liberazione. Ed è in questi due fenomeni, nella loro ruvida materialità, che la forza di una nuova autonomia comincia concretamente a rivelarsi.