La punizione collettiva del popolo palestinese sta nel corpo carbonizzato di Mohammad. Nelle macerie delle case demolite dai bulldozer israeliani in Cisgiordania, perché di proprietà di palestinesi sospettati dell’uccisione dei tre coloni adolescenti. Sta negli attacchi feroci contro una fattoria a sud di Nablus, data alle fiamme dai coloni. Sta nella marcia di centinaia di israeliani nella Città Vecchia di Hebron e nella conseguente aggressione ai residenti palestinesi.

Sta anche nell’omissione del nome del giovane palestinese ucciso a Gerusalemme negli articoli delle testate di mezzo mondo, per le quali ci sono individui degni di essere considerati persone e altri che non restano che un numero. In attesa della reazione del governo di Tel Aviv al ritrovamento dei corpi dei tre coloni uccisi a Halhul, sud della Cisgiordania, in Area C (sotto il controllo militare e civile israeliano), a reagire è la base: movimenti dei coloni, gang, estremisti prodotto di una società militarizzata e fondata sulla paura del nemico comune.

Ieri è stato un altro giorno di tensione in Cisgiordania. All’alba nel villaggio di Idhna le forze militari israeliane hanno demolito la casa di Ziad Awwad, altro sospetto nel caso dei tre coloni, e lasciato 13 persone (di cui 8 bambini) senza un tetto sulla testa, dopo aver dato alle fiamme – poche ore dopo il ritrovamento dei cadaveri – le abitazioni di due presunti membri di Hamas, Amer Abu Eisha and Marwan al-Qawasmeh. Negli scontri che sono seguiti alla demolizione della casa della famiglia Awwad, sei palestinesi sono rimasti feriti.

Martedì era toccato ai negozi del villaggio di Al-Khader, alle porte di Betlemme, distrutti dai soldati e di nuovo alla città sotto assedio di Hebron: centinaia di coloni hanno marciato per le strade della Città Vecchia aggredendo i residenti palestinesi. Intanto, a nord della Cisgiordania, nel campo profughi di Jenin moriva per un colpo di pistola al petto il 18enne Yousef Abu Zagha. Sempre nella giornata di ieri, l’esercito israeliano ha arrestato 42 palestinesi tra Hebron, Nablus, Salfit, Tulkarem, Ramallah, Betlemme e Qalqiliya perché considerati da Tel Aviv membri di Hamas.

Dove non arriva l’esercito, sono i coloni ad operare. Ieri nel villaggio di Aqraba, a sud di Nablus, la fattoria della famiglia Bani Jaber è stata il target di un gruppo di coloni del vicino insediamento di Itamar che ha dato fuoco alla struttura. La famiglia è riuscita a mettere in salvo gli animali, ma la fattoria è andata distrutta. Nelle mura esterne, i coloni hanno scritto con lo spray le frasi che spesso accompagnano questo tipo di violenze, sempre più frequenti: “Price Tag”, il prezzo che la popolazione palestinese deve pagare come punizione per ogni atto che danneggia il movimento dei coloni.

Il giorno precedente a finire nel mirino dei coloni era stata una bambina di soli nove anni, volontariamente investita da un’auto, Sanabel Attous, del villaggio di Jab’a, ricoverata in ospedale con gravi ferite alla testa, e il 28enne Nouh Edris, investito a sud di Hebron. Lo spettro politico israeliano ha ieri condannato l’uccisione di Mohammed a Gerusalemme e in passato si è più volte espresso contro le aggressioni dei coloni, considerati alla stregua di schegge impazzite. Schegge che non sono che il prodotto, però, di una politica fondata sulla violenza e l’espropriazione: nei durissimi commenti dei principali leader israeliani ad uscire è la voglia di vendetta, di punizione di un intero popolo («Morte al nemico, toglietegli il sorriso», «Chissà quanti membri di Hamas resteranno vivi dopo stanotte»). I coloni non fanno che mettere in pratica le violente dichiarazioni della loro classe politica.

Ieri il premier Netanyahu ha condannato l’omicidio di Mohammed Abu Khdeir, definendolo un «abominevole crimine», dietro pressante richiesta del presidente dell’Autorità Palestinese Abbas di avviare un’inchiesta seria sull’accaduto. Bibi ha promesso che le indagini si faranno «perché Israele è uno Stato di legge». Lo stesso Stato, però, che sta discutendo di come reagire all’uccisione dei tre coloni: se parte della coalizione di maggioranza (Casa Ebraica in testa) punta all’ovvia espansione coloniale, altri – da Livni a Lapid – chiedono di limitarsi alla distruzione di Hamas. Gaza è di nuovo nel mirino, facile preda da gettare in pasto all’opinione pubblica.

Per ora, nessuna decisione definitiva è uscita dalle stanze dei bottoni israeliane: il timore è che un’azione militare non venga giustificata da una comunità internazionale che negli ultimi tempi si è mostrata meno propensa ad avallare ogni offensiva di Tel Aviv.

Nel mirino dell’opinione pubblica palestinese finisce, invece, il presidente Mahmoud Abbas e la ferrea volontà di Ramallah di non mettere in discussione il coordinamento alla sicurezza con Israele, nonostante il target sia Hamas, “alleato” di governo. Le proteste dei giorni scorsi contro i simboli della cooperazione (stazioni di polizia e uffici del Dipartimento del Coordinamento Civile) sono messaggi chiari: la popolazione non accetta più che l’ANP faccia da specchietto per le allodole dei crimini israeliani.