Pareva essersi attenuato l’interesse per i fatti risorgimentali e, con essi, per la storia non solo politica ma anche sociale di cui sono parte ed espressione. Al pari, per molta della storiografia degli ultimi cinquant’anni, anche le tante vicende che si accompagnarono alla costituzione e poi alla stabilizzazione del Regno d’Italia sembravano essere assodate o, quanto meno, destinate a non essere più fatte oggetto di una qualche indagine supplementare. Ma nell’ultimo decennio è subentrato un nuovo interesse, in parte legato all’attenzione della pubblicistica ed in parte debitore della stessa polemica politica. All’una e all’altra, quand’anche la strumentalità di certe affermazioni sia da subito palese, occorre infatti dare una risposta che permetta di impegnarsi nella battaglia della ricostruzione del senso comune, quest’ultimo inteso come esercizio di raziocinio e non di gratuita e delirante invettiva.

POICHÉ SULLA MEMORIE del Risorgimento, e dell’Unità, si gioca ancora oggi un confronto che ha molti punti di contatto con i giudizi formulati rispetto alla guerra di Liberazione. Al centro di questa dinamica si pone la dialettica tra definizione della sovranità istituzionale e partecipazione collettiva, trattandosi del rapporto tra costruzione in età contemporanea del campo del politico e accesso delle classi subalterne alla sfera dei processi decisionali. Politica e polemica hanno quindi sollecitato, non importa quanto involontariamente, una ripresa degli studi e delle riflessioni sul nostro passato, imponendo di orientarsi su una storia della lunga durata, che riesca non solo a ricostruire frammenti dei trascorsi ma a ricomporli all’interno di un quadro sufficientemente unitario, capace di restituirci un quadro di significati rispetto ad un’unificazione difficile, da molti riconosciuta come ancora a tutt’oggi incompiuta.

ENZO CICONTE con La grande mattanza. Storia della guerra al brigantaggio (Laterza, pp. 277, euro 20), ritorna su un tema per il quale ha lungamente indagato, da studioso, ricercatore, docente e intellettuale impegnato in politica. Le questioni meridionalistiche sono da quarant’anni al centro della sua produzione bibliografica. Il nuovo volume risponde ad una duplice esigenza: recuperare il respiro storico nella valutazione del fenomeno del brigantaggio, evitando sia gli inganni e i cortocircuiti delle polemiche di bassa lega che il facile gioco delle mitografie contrapposte; identificare la dialettica tra manifestazione di fenomeni ad ampia diffusione sociale e le risposte istituzionali, da quelle puramente repressive a quelle più mediate, basate su percorsi di riassorbimento se non di cooptazione.

IL VOLUME, CHE SI SEGNALA per uno stile scorrevole e sobrio, senza per questo penalizzare la sostanza delle riflessioni, si sofferma in particolare sulle dinamiche di governo del territorio del Mezzogiorno d’Italia in condizioni di eccezionalità quali quelle dettate dall’insorgenza del «banditismo». Prima e dopo l’unificazione. La stessa espressione d’uso abituale, che rimanda alla proscrizione dal consesso civile, ha una natura polisemica, rinviando a quelle figure mediane, sospese tra criminalità comune e dissenso politico, tra rapina e redistribuzione, che sfuggono ad una definizione condivisa, consensuale e ultimativa. Ciconte ha ben in chiaro quale siano le discriminanti tra legalità e criminalità. Non solo come studioso ma anche per la sua trascorsa attività parlamentare. Proprio per questo indaga sulla questione, tutta politica, della difficile legittimazione di un nuovo potere sovrano, soprattutto nel caso dello Stato unitario, così come sulla liceità delle condotte repressive assunte dalle autorità, tanto più quand’esse diventano il modo prevalente, se non esclusivo, di rapportarsi a popolazioni di cui si conosce ben poco se non nulla.

L’ANALISI DEL BRIGANTAGGIO, e dei modi in cui fu represso nel corso del tempo, dagli Stati d’Ancien Régime del Cinquecento al Regno d’Italia, ci restituisce allora uno spaccato del definirsi, secondo le coordinate culturali del nostro tempo, della «questione criminale». Ma anche, in immediato riflesso, dell’immagine di un territorio, della sua morfologia sociale così come della sua condivisione nell’immaginario collettivo, quello di una nazione in via di difficile costruzione. Nota l’autore al riguardo: «negli anni cruciali della costruzione dello Stato unitario c’è una guerra spietata ai briganti, ma la stessa durezza non è rivolta a fenomeni criminali e mafiosi noti e conosciuti in Campania, Sicilia e Calabria.

Con i moderni agglomerati mafiosi lo Stato sceglie il quieto vivere, la convivenza, la coabitazione. Per quanto armati, i mafiosi non sono percepiti come un pericolo o una minaccia da parte dello Stato o dei grandi proprietari che non si sentono insidiati nelle loro proprietà. È una scelta le cui conseguenze arrivano sino a noi». Benché buona parte di queste riflessioni possano considerarsi acquisite tra gli studiosi di professione, la loro rilevanza si impone dal momento che la rilettura del passato, oggi in voga da parte di un falso meridionalismo di grana spicciola ma di facile consuma, rischia di fare implodere le coordinate stesse della discussione, consegnandole ai territori del risentimento e della rivalsa nel vuoto di qualsiasi progettualità politica.