Il giorno dopo l’annuncio – «sono in grado di formare il governo» – fatto dal premier incaricato Yair Lapid, è quello del dramma nella destra. Largamente maggioritaria nella Knesset e nel paese, la destra israeliana si è spaccata per interessi di partito e rivalità personali. E l’esito è stata la formazione di una maggioranza multicolore, con destra e centrosinistra, senza King Bibi, Benyamin Netanyahu, l’uomo che per 12 anni ha incarnato la dottrina e le politiche sul terreno di questo schieramento. La rappresentazione più compiuta di questo dramma è nel movimento dei coloni, schiacciato dal dilemma. Da un lato c’è Netanyahu, il primo ministro protagonista della più massiccia espansione dal 1967 delle colonie ebraiche nella Cisgiordania palestinese. È il capo di governo che ha ottenuto da un presidente americano, Donald Trump, il riconoscimento statunitense di Gerusalemme capitale di Israele e della «legalità» degli insediamenti coloniali. Dall’altro c’è Naftali Bennett – sarà premier per due anni poi toccherà a Lapid -, che è leader del partito nazionalista Yamina, che come loro è un ebreo religioso «ortodosso moderno», che sogna di annettere tutta la Cisgiordania a Israele e vede nella creazione di uno Stato palestinese un «suicidio» per Israele. E Bennett è stato anche il leader di Yesha, il principale movimento della colonizzazione. Perciò esitano ad esprimersi per l’uno o per l’altro. Ma sotto il tavolo, i coloni tifano per Netanyahu e sperano nel fallimento della «coalizione del cambiamento» che, ad aggravare le loro preoccupazioni, include anche un partito arabo.

Si è capito ieri quando Arutz 7, l’agenzia del movimento dei coloni, ha dato un eccezionale risalto all’analisi fatta dal commentatore della tv Channel 12, Amit Segal, sulla nuova mappa politica israeliana. «Cos’è questo governo? È una creatura senza precedenti, non è stabile. È sufficiente che il deputato Nir Orbach di Yamina non si presenti (al voto di fiducia) e non ci sarà il governo», ha detto Segal. Che è anche sicuro che altri membri della Knesset non appoggeranno la richiesta di Lapid e Bennett di rimuovere lo speaker della Knesset Yariv Levin, del partito Likud di Netanyahu, che vorrebbe allungare i tempi del voto di fiducia dando al premier uscente giorni preziosi per recuperare il consenso dei disertori della nuova maggioranza. Un solo voto contrario potrebbe far deragliare la coalizione e portare il paese alle quinte elezioni in due anni e mezzo, l’obiettivo al quale punta Netanyahu. Nir Orbach è una mina vagante che Bennett in una riunione di partito a Raanana ha provato a rimettere in riga. Un tentativo che sarebbe riuscito a metà.

Lapid spera di poter giurare davanti alla Knesset già lunedì per ostacolare gli sforzi di Netanyahu che preme su Orbach e su altri deputati della maggioranza appena nata per spingerli a passare dalla sua parte. I giochi non sono fatti, la situazione è fluida. Il premier uscente ha convocato una riunione di emergenza con i leader del blocco religioso di destra che gli è rimasto fedele ed è andato all’attacco della nuova coalizione definendola «di sinistra e pericolosa». Ha anche accusato Lapid e Bennett di «aver svenduto il Negev al Raam», il partito arabo che fa parte dell’accordo per il nuovo governo. Da sempre poco incline a riconoscere i suoi errori, Netanyahu non riflette sulla sua figura politica tanto divisiva da aver spaccato la destra che, se fosse unita, potrebbe governare agevolmente Israele, con una ampia maggioranza alla Knesset. Degli otto partiti dell’accordo di coalizione annunciato mercoledì sera, ben cinque sono capeggiati da ex ministri di governi guidati da Netanyahu, a partire da Bennett e Lapid per finire a Gideon Saar (Nuova Speranza), Avigdor Lieberman (Yisrael Beitenou) e Benny Gantz (Blu e Bianco). Bennett, Saar e Lieberman hanno posizioni di destra persino più radicali di Netanyahu.

In queste ore più che a riconsiderare i passi falsi fatti nei rapporti con i leader dei vari partiti di destra, Netanyahu pensa a quanto la sua esclusione dal governo e la perdita della poltrona più ambita peseranno sul processo in corso che lo vede al banco destinato agli imputati e in cui deve difendersi dall’accusa di corruzione, frode e abuso di potere. Le testimonianze ascoltate nelle ultime udienze hanno confermato quanto sia delicata la sua posizione e se non ci saranno svolte clamorose, Netanyahu rischia una condanna che può mettere fine alla sua carriera politica. Per questo nel suo partito si levano sempre più numerose le voci di coloro che vorrebbero un suo passo indietro «temporaneo» e la scelta di un leader «provvisorio» per ricucire le lacerazioni nella destra e sventare l’iniziativa di Lapid e Bennett. E anche a casa per Netanyahu le cose non vanno bene. Facebook ha bandito per 24 ore il figlio Yair Netanyahu che ha pubblicato un post con una foto in cui invocava con parole di fuoco una manifestazione a sostegno del deputato Nir Orbach di Yamina in modo da persuaderlo ad andare sino in fondo e a negare l’appoggio a Lapid e Bennett. In un tweet il giovane Netanyahu ha poi scritto: «i bolscevichi di Facebook mi hanno bloccato per 24 ore a causa di una fotografia. Il colosso tecnologico, lo stato profondo e il sistema pseudo legale – insieme con i loro burattini nel nuovo governo – stanno portando Israele ad un periodo molto buio. Spero che questo non finisca nei gulag».