Elliott Erwitt, con il suo sguardo sornione e umilmente grande, ha presentato al pubblico italiano la sua retrospettiva di Palazzo Madama a Torino (136 fotografie in bianco e nero) che racconta in parte i percorsi professionali attraversati in più di sessant’anni di lavoro (fino al primo settembre). Nato a Parigi nel 1928 da genitori russi di origine ebrea, Erwitt ha vissuto i primi anni di vita a Milano, per poi trasferirsi a Los Angeles in seguito alle leggi razziali del 1938. Si era avvicinato alla fotografia lavorando in un laboratorio di stampe di stelle del cinema e, nel 1953, proprio per volontà del fondatore Robert Capa, diventò membro di Magnum Photos. Se molti dei suoi colleghi della celebre agenzia lavoravano (e Capa ci morì, nei campi di battaglia in Indocina) a reportage di guerra, Erwitt non ha mai tentato di percorrere la stessa strada. Lo ha, del resto, spiegato tante volte: ad avvicinare i primi grandi fotografi Magnum era sostanzialmente lo sguardo puntato sulla condizione umana, con la conseguente volontà di raccontarla.
Osservatore instancabile, Erwitt ripete da sempre che fotografa quello che vede. Forse è inutile ribadire che la sua produzione è sempre stata «letta» con la lente dell’ironia. Famosi i suoi tanti cani, cagnetti e cagnolini saltellanti, pubblicati senza sosta. Ma anche la divertita incredulità di fronte a due adulti e una bambina che, in un museo, osservano attentamente una cornice che non contiene un dipinto, ma solo un biglietto. Oppure lo scatto di un gruppo di nudisti a East Hampton che, mentre mostrano all’obiettivo le proprie terga prive d’indumenti, sono impegnati nel ritrarre una modella. Vestita di tutto punto. È un’ironia a volte pungente la sua, mai volgare, utilizzata per presentare e srotolare la «commedia della vita» e le contraddizioni dell’esistenza umana. L’ironia, a volte paragonata a quella di Charlie Chaplin, rappresenta, in realtà, anche la consapevolezza di un dolore più profondo, che si maschera con il sorriso. Un sorriso che può d’un tratto scomparire, allora, in quelle foto a cui Erwitt non ha voluto sottrarsi. Per esempio, gli occhi vuoti e senza risposta di Jakie e Robert Kennedy al funerale del presidente John. Sono gli scatti senza possibilità di riscatto della mamma di Capa che, accompagnata da Erwitt a visitare la tomba del figlio, resta rannicchiata dentro il suo cappotto scuro. Davanti a lei, c’è la lapide su cui compare il nome di Robert, con le date della sua vita e della sua fine. Uno scatto che non parla, ma narra tutto il dolore, composto, di una madre.

Ed è anche l’immagine di un cielo grigio, di una torretta, di quelle finestre chiuse e che mai si riapriranno, di una traccia di ferrovia, di erba e sassi, e forse qualche fiore. L’immagine, terribilmente silenziosa, del campo di Auschwitz. Nella conversazione riportata nel catalogo (Silvana editoriale) tra Elliott Erwitt e Angela Madesani, il fotografo – che da quell’orrore si era salvato partendo per gli Stati Uniti – ricorda il motivo che lo portò a scattare quella fotografia. «È un’immagine dell’entrata del campo di concentramento… Non c’è nulla di misterioso al riguardo, è semplicemente un crudo promemoria di un luogo che vivrà nell’infamia per sempre. Ritengo sia importante mostrare i luoghi dove accadono cose brutte, così come quelli dove accadono cose belle». Parla così Elliott, semplicemente lapidario, senza bisogno di dover aggiungere né enfatizzare nulla. La foto si spiega da sé.
La mostra torinese è ricca in tutti i sensi. Ma è un vero peccato che sia stata relegata e concentrata in uno spazio tanto piccolo quanto i locali della Corte Medioevale di Palazzo Madama. Un peccato guardare queste immagini in un contesto tanto angusto da non riuscire ad avere una visione che riesca a farcene apprezzare la grandezza, né da una distanza appropriata (solo qualche metro), né in un campo visivo adeguato. Lungo pareti di circa 10-12 metri, sono appese dieci, tredici fotografie di grandezze diverse, che sembrano asfissiarsi a vicenda. Che siano ironiche o molto drammatiche, ognuna avrebbe bisogno di uno spazio di quiete e contemplazione intorno a sé. E invece, le immagini si susseguono e si accavallano emotivamente, in una rapida teoria lungo muri.