All’incontro stampa di aAmerican Dharm Steve Bannon non c’è – non è invitato dal regista Errol Morris né dal Festival – ma l’ex stratega di Trump ha fatto ieri la sua comparsa «in incognito» alla proiezione ufficiale del film, dove è entrato quasi di soppiatto, mescolandosi col pubblico e – come riporta Variety – ha assistito alla proiezione dalla balconata, negandosi ai giornalisti probabilmente per attirare ancor più l’attenzione su di sé. E proprio «l’attenzione» data a Bannon dal documentario del quale è protagonista è stata al centro di un acceso dibattito con il regista, accusato di aver con il suo American Dharma «normalizzato» il male che Bannon rappresenta, di aver partecipato a una sovraesposizione mediatica che fa il gioco di uno dei peggiori esponenti dell’Alt Right americana . «Anche io sono stato combattuto su questa idea, e lo sono tutt’ora, ma la mia risposta non è stata rimanere zitto, non fare questo film», ha risposto Morris. «Steve Bannon, come anche Trump, ha un’abilità straordinaria nell’attirare l’attenzione dei media. Dargli un’opportunità di avere ancor più visibilità è un male, ma allo stesso tempo indagare, cercare di capire, è assolutamente necessario». La necessità di capire, sottolinea Morris, è alla base del suo documentario: «Nel mondo, e negli Stati uniti, stanno accadendo cose profondamente inquietanti: è fondamentale comprendere cosa sta succedendo – su di noi incombe un terribile pericolo e non possiamo rifiutarci di vederlo». Il suo mestiere, anche da giornalista – sottolinea – non è solo «discutere le opinioni altrui, ma indagare».

Tutti gli eventi che negli Stati uniti hanno portato all’elezione di Trump nel 2016 sono stati come «una tempesta perfetta». Così come la carriera di Bannon «che lo ha portato a diventare all’ultimo secondo il manager della campagna elettorale» del tycoon. «Come è potuto succedere, e perché?», si chiede quindi Morris. Girare questo film, continua, gli ha consentito di scoprire cose che ignorava su Bannon, come ad esempio la sua cinefilia: «È stato uno shock sentirmi dire che il mio documentario Fog of War era stato così determinante per lui». Ma i film sono anche quelli che Bannon cita spesso e volentieri nella lunga intervista con Morris: «Quando ho scoperto che era un cinefilo gli ho chiesto di mandarmi la lista dei suoi film preferiti, e mi ha sorpreso. C’erano opere di John Ford, Kubrick, Orson Welles… Nel dialogo con lui i film funzionano come delle macchie di Rorschach: Bannon ci vede delle cose spesso completamente all’opposto di come le interpreto io».

Una delle domande alle quali Morris dice di aver cercato di trovare una risposta attraverso il suo film è la reale natura delle convinzioni dell’uomo che è stato così determinante nell’elezione di Trump: «Crede davvero a ciò che dice o è solo un venditore, un opportunista che sfrutta delle idee terribili per ottenere potere? Io propendo per la seconda ipotesi ma c’è qualcosa nelle sue affermazioni che mi fa pensare che invece faccia per davvero. E questo lo rende ancora più pericoloso: nelle sue convinzioni c’è un fondo apocalittico che va ben oltre lo stesso rischio posto da Trump, che secondo me non ha neanche un’ideologia, vende solo se stesso». Parlarne, Morris ne è convinto, «è straordinariamente importante».

Il ventesimo secolo – continua infatti il regista – «è stato teatro di una terribile carneficina, per questo ci siamo dati delle organizzazioni internazionali affinché questo non accada più. Ma oggi in America sembra che si sia persa la consapevolezza della Storia». E ora Bannon punta sul Vecchio continente che, spiega Morris: «vorrebbe ridurre a un insieme di stati nazionali in guerra tra loro, distruggendo la moneta unica, le Nazioni Unite. Sta cercando di esportare il suo metodo in Europa, una cosa che deve fare molta paura».