E’ nobile iniziativa che una collana prestigiosa come quella della Fondazione Lorenzo Valla metta a disposizione di un vasto pubblico, e con ampio supporto di apparati, un testo ‘raro’, e ricco di fascino, come il corpus di Massimiano. Si tratta di un caso letterario per molti aspetti misterioso, cosa che ha sollevato una ridda di divergenti interpretazioni, e l’edizione a cura di Emanuele Riccardo D’Amanti (Elegie, Mondadori, pp. CX-414, euro 50,00) consente ora un’agevole esplorazione di questo singolare ‘microcosmo’.
La tradizione manoscritta ci consegna sotto il nome di Maximianus un corpus in distici elegiaci di quasi settecento versi, che, composto – pare – in ambiente italiano e intorno alla metà del VI secolo, sviluppandosi nel solco della tradizione elegiaca romana tratta in chiave autobiografica argomenti amorosi. Ma, vistosamente innovando, ne trasferisce il punto di osservazione in quella zona forzatamente liminare che è l’estrema vecchiaia. La persona loquens afferma di vivere una stagione di devastante decrepitezza, di cui piange a lungo le afflizioni, non ultime quelle che precludono le gioie dell’eros. È stato ipotizzato che Maximianus sia da intendersi come un ‘nome parlante’, volto a evocare appunto un’età assai avanzata. In assenza di maggiori punti d’appoggio, si continua ad assegnare a questo bizzarro elegiaco il nome di «Massimiano» con cui l’ego compare fra i suoi versi (IV 26: «canta: Massimiano ama una cantante»), e a ritenerlo «nato attorno al 490 in Etruria» in una famiglia di rango, e «morto poco dopo la metà del VI secolo», abbastanza a ridosso della ‘pubblicazione’ delle poesie.

Con Aquilina come Piramo e Tisbe
Dalla sua condizione di vecchio ormai consunto e sull’orlo della tomba, il poeta si volge a ricordare il proprio passato galante. Una prima lunga elegia, rimpiangendo i giovanili splendori, presenta soprattutto una dettagliata rassegna delle attuali deprivazioni e sciagure. Vi si collega strettamente la seconda, in cui il poeta lamenta che, a causa della sua decrepitezza, sia venuto a cadere il pur lungo legame con Licoride. Ora, Lycoris è il criptonimo con cui aveva cantato la propria donna Cornelio Gallo, ritenuto il fondatore dell’elegia erotico-soggettiva a Roma. Questo mi sembra già segnalare come l’autore proponga il suo disegno attraverso il filtro di una spiccata letterarizzazione. Il tratto è ancora più evidente nella terza elegia, che apre un trittico di vicende cronologicamente ordinate e rispettivamente assegnabili alla giovinezza, alla maturità, alla tarda età dell’ego. Da ragazzo, si innamora di Aquilina, ricambiato, ma la storia è avversata dal suo pedagogo e dalla madre di lei, e questa ‘opposizione’ è tratteggiata in termini che ricordano i contrastati amori di Piramo e Tisbe nelle Metamorfosi di Ovidio (IV 55-166). Disperato, il giovane si rivolge nientemeno che al grande filosofo Boezio: questi consiglia di assecondare l’amore e, con denaro e doni, ottiene dai genitori di lei il sospirato consenso. Ma il permesso di ‘peccare’ dissolve l’ardore: Aquilina esce di scena triste e intatta, il protagonista prorompe in una lode della verginità, e, se pur sconsolato, opta per il pudore, mentre Boezio si congratula con lui per la saggezza dimostrata. È una trama che desta stupore, soprattutto per la paradossale cura ‘omeopatica’ gestita da un Boezio presentato quasi nei panni di un compiacente mezzano. Si è, così, molto discusso se il brano non vada inteso in chiave ironica e come una sorta di aggressione al prestigio dell’autore della Philosophiae consolatio. In realtà (e D’Amanti concorda) parrebbe di no. Si palesa qui quella che, secondo me, è forse la ragione di fondo del corpus: meditare ‘elegiacamente’ sulla posizione dell’amore carnale in un mondo che registra il conflitto fra eros e pudor, fra le ‘naturali’ e prepotenti sollecitazioni della sensualità (ora messe in crisi, nel protagonista, dal cumulo degli anni) e quelle di una morale corrente che preme in direzione della castità.
Una prospettiva analoga affiora nella quarta elegia, presentata fin dall’incipit come il regesto di turpes casus: il protagonista si è innamorato della bella Candida, seducente per le sue virtù nel canto e nella danza. Ne è ossessionato e, benché non si giunga mai a una consumazione, accade che egli, nel sonno, la inviti per nome all’amplesso proprio mentre, in un prato, gli sta dormendo accanto il padre di lei. Di nuovo l’ego manca l’occasione del godimento – e di nuovo si dice «senza colpa» (sine crimine) e tuttavia infelix –, ma nello stesso tempo subisce un danno nella propria reputazione di sancta gravitas (IV 49-51): «Così io, considerato da tutti di integra austerità, / fui scoperto, ahimè, per mia stessa denuncia».
L’episodio assegnato alla vecchiaia (quinta elegia) ci presenta un’avventura del protagonista, mandato come ambasciatore in Oriente, con un’ammaliante «ragazza greca». A una prima notte ‘felice’ ne fa seguito una segnata invece da un ineluttabile episodio di impotenza. La fanciulla intona un epicedio sulla defunta virilità di Massimiano, cosa che a lui per primo appare spropositata: «mi sembri oppressa da un morbo ben più grave»; ma l’anonima Graia puella ribatte che è Massimiano a non cogliere la gravità del punto, e che lei sta piangendo non un caso privato, bensì «un sovvertimento universale» (V, 113-116), perché, come spiega in un lungo compianto finale, quell’organo è simbolo di un cosmico principio di amore e generazione. Siamo all’apice del curioso ‘discorso elegiaco’ a mio parere sviluppato dal corpus. L’eros è un vettore cruciale dell’esistenza, principio vivificatore del mondo. In parallelo agisce, per lo meno nella nostra vita, un opposto principio di dissoluzione: quella vecchiaia che trascina poi alla morte. Al poeta elegiaco spetta ‘per statuto’ il canto delle gioie d’amore, anche quando egli sia ormai nella morsa della decadenza fisica. Ma il canto dell’eros si trova a sua volta alle prese con difficoltà d’altra natura, in quanto moralmente in conflitto con una nuova ideologia della sancta virginitas e del pudor (III, 83-84), radicata in principî religiosi. Senza assumersi il compito di definire risposte, il corpus di Massimiano porge tutto ciò (nelle modulazioni della poesia) a un’individuale riflessione, tramite un itinerario ‘autobiografico’ costruito all’incrocio fra vita e tradizione letteraria.

Il gusto per il concettismo arguto
Del problematico corpus, D’Amanti offre un testo critico attento e attendibile, con ricco apparato. Bene fa a mantenere (contro chi sosteneva la tesi del carmen continuum) l’articolazione dell’opera in sei elegie (sull’ultima torno più sotto), a rinunciare a una talora ipotizzata suddivisione in libri, a fissare l’inizio della quinta là dove, diversamente dalla pregressa tradizione ecdotica, già raccomandava di collocarlo il compianto Willy Schetter. Doviziose e informate sono l’introduzione e la cospicua sezione (trecento pagine) di commento. Fra le prospettive più personali di D’Amanti rientra l’idea secondo cui, in forza di vari paralleli con l’ultima produzione di Ovidio (quella della relegatio a Tomi), la vecchiaia sarebbe qui presentata come una sorta di «esilio» dalle gioie della vita: lettura fors’anche ammissibile, sebbene a me sembri parziale e a volte forzata (pp. XVI e XXI-XXVI), come quella che allinea Massimiano alla tragedia (XXV). Il poeta ha conosciuto, anche di recente, non poche traduzioni italiane come – dopo Giuseppe Prada (1920) e Tullio Agozzino (1970) – le raffinate rese di Dario Guardalben (1993) e Luca Canali (2011), nonché, in altra edizione critica commentata, di Alessandro Franzoi (2014). Quella di D’Amanti procede linea contro verso in elegante chiarezza, privilegiando l’enucleazione dei significati, spesso non agevole, dato anche il gusto di Massimiano per il concettismo arguto. Talora se ne può dissentire, sia per parole singole (ad es.: I, 12 «fallace» per ficta; I, 105 «eccede» per exsultat; III, 57 «esitavo» per pudor est e 75 «passione» per vitia), sia per certi aspri nuclei sintattici (I, 177-78) o concettuali (I, 264; II, 15; IV, 51-54: cfr. p. 319): ma questo è nei fati di qualunque operazione interpretativa. Chiudono l’opera un’Appendice che riporta, con traduzione, un anonimo testo sulla vecchiaia che sembra influenzato da Massimiano, e utili indici «dei nomi e delle cose notevoli» e «linguistico, stilistico, retorico».
Pur nel vanitas vanitatum alla cui meditazione invitano i mali del tempo, per una volta potrei, avendo raggiunto la terza età, allinearmi alle senili querimonie di Massimiano – e/o alla stolta presunzione di dottrina di cui egli accusa i vecchi (I, 199-200)? –, appuntando che, se si sono dedicate a un poeta molte attenzioni critiche (auspicabilmente non troppo peregrine), non dispiacerebbe trovarle, se non maggiormente considerate, per lo meno trattate con minore sbrigatività. Sorvolo su casi minori e troppo intricati perché possa ora trattarne (come quello di p. 319; o a p. 337 quello di un ut ante di cui non avrei tenuto conto, e che può ben rinviare a pregresse defaillances dell’anziano amatore amatore, da D’Amanti evocate nella pagina prima), e chiudo su un punto importante per l’inquadramento di tutto il corpus: l’interpretazione dell’ultimo distico della breve elegia che, ritornando al tema della vecchiaia e di un’ormai incombente scomparsa, corona l’opera (VI, 11-12). Massimiano scrive infelix, ceu iam defleto funere surgo / hac me defunctum vivere parte puto. D’Amanti – gentilmente: perché non sono il primo, se pure ho argomentato in dettaglio la cosa – mi ricorda in testa a «una folta schiera di studiosi» che «ritiene di poter scorgere in pars il topos dell’immortalità garantita dall’arte», però «con scarso fondamento, dal momento che pars nel corpus non ha questo valore» (p. 388). Certo, pars può avere altrove altri valori, ma l’averlo usato anche diversamente non ha impedito a Orazio di chiudere le Odi con non omnis moriar, multaque pars mei/ vitabit Libitinam (III 30, 5-6: «non morirò interamente, e una gran parte di me/ eviterà Libitina»); né a Ovidio di chiudere la prima elegia degli Amores sottolineando «e perciò anche quando mi avrà divorato il fuoco supremo / vivrò, e una parte grande di me (parsque mei multa) rimarrà superstite» (I 15, 41-42). Ovidio, poi, si spinge addirittura ad affidare alla parola pars nientemeno che l’ultima delle sue Metamorfosi, ovvero la trasformazione del poeta nel proprio libro, quando – con evidente emulazione di Orazio – chiude il capolavoro sviluppando ampiamente il motivo (XV 873-79) e scrivendo di una «parte migliore di me» (parte tamen meliore mei) in cui per l’eternità è destinato a vivere (ed è l’ultima parola: vivam). Di questi non marginali paralleli D’Amanti, che pure altrove registra vari loci similes talora anche discutibili, segnala solo (senza trascriverlo) quello delle Metamorfosi, perché richiamato da un altro studioso da lui ricordato in dossografia. Ma, poggiando su queste vere e proprie colonne della tradizione, tutto sembra dirci che, da Orazio in poi, pars è divenuto quasi un ‘termine tecnico’ per indicare la «parte» di sé – naturalmente, l’opera – in cui si sopravvive. E questa esegesi offre al corpus un finale ‘forte’, anche se convenzionale, che non mi pare di scarso fondamento. Non tradurrei dunque, con D’Amanti, «me infelice, come da lacrimate esequie ormai mi levo: / per la parte di strada che mi resta vivrò, credo, benché morto». Ma, assegnando a Massimiano il gesto solenne di «alzarsi» dal proprio corpus per prendere da noi congedo con una proiezione nella futura fama, tradurrei: «infelice mi alzo, come già fossero state piante le mie esequie: / defunto, in questa parte – a quanto credo – io vivo».
E inclinerei a scorgere un’anticipazione di questo differente, e parzialmente consolatorio, destino riservato al poeta pochi versi più sopra, in cui leggiamo (VI, 5-6, traduzione di D’Amanti): «per tutti è uguale la strada della morte, e tuttavia non vi è per tutti / un solo modo di vivere e morire».