Chi si aspetta esotiche sdolcinatezze o solleticanti contenuti porno-soft rimarrà deluso. Un brano per tutti: «a causa della paura, la gente segue come un’eco le parole dei sovrani, ma quei re, che hanno le cavità delle orecchie interamente otturate dalla tumefazione costituita dalla sfrenata arroganza, non sentono, benché sia stato loro impartito un ammonimento». Osservazione molto attuale, se solo si sostituiscono a re e sovrani i tanti governanti dalle tentazioni autoritarie del mondo odierno.
L’esempio non è che uno degli innumerevoli distillati di saggezza che si trovano negli scritti raccolti in L’universo di Kama Testi d’amore dell’antica India, a cura di Fabrizia Baldissera (Einaudi, «I Millenni», pp. 702, euro 80,00), opera preziosa, che per la ricchezza dei suoi contenuti e la piacevolezza dello stile può sin d’ora aspirare allo statuto di «classico»: un volume «di riferimento», risultato dello sforzo congiunto di una decina di studiosi, che ben rappresentano l’eccellenza degli studi sulle lingue e le culture dell’India nel nostro paese. Particolarmente felice, la scelta del titolo tiene insieme l’allusione a Kama, il dio dell’amore che rimanda al tema erotico costitutivo del fil rouge del libro, e il termine «universo», che rinvia alla infinità degli argomenti trattati, a volte anche molto distanti dal tema centrale, così da costituire una sorta di concentrato enciclopedico della cultura indiana tradizionale.

Il ricco apparato di note e un glossario molto dettagliato forniscono il complemento indispensabile di un’opera in cui, a ogni passo, si incontrano rimandi a miti e testi letterari, nomi, epiteti e avatar di dei, semidei e eroi, allusioni a usi tradizionali o alle complesse regole delle religioni indiane – tutte nozioni spesso ignote a gran parte del pubblico anche di cultura medio-alta – tanto che viene da chiedersi se non sarebbe stato il caso di sacrificare per una volta la stretta aderenza alle norme editoriali della collana dei Millenni, che spostando tutte le note in fondo al libro, costringe a una continua ginnastica penalizzante il piacere della lettura.

L’accurata selezione dei testi permette di accostare le più diverse tipologie di composizione dalle tradizioni letterarie di tre delle principali lingue del subcontinente indiano: sanscrito, pali e tamil. Si va dai più antichi inni vedici ai precetti del canone buddista, passando per varie forme della letteratura: poemi epici, poesie, prosa, teatro, trattati medici e inni religiosi. Oltre duecento pagine sono occupate da un «romanzo» fiabesco dall’intreccio assai complesso che ruota intorno alle alterne vicende dell’amore tra il principe Candrapida e l’immortale Kadambari, e comporta una folla di personaggi secondari, in un vortice di eventi miracolosi e rinascite a volte bizzarre, come quella del saggio Vaisampayana trasformato in pappagallo tenuto in gabbia da una fuoricasta che alla fine si rivelerà essere la dea Laksmi. La cosa fa tanto più effetto perchè Vaisampayana era già comparso nel volume nella veste di colui al quale, nel grande poema epico del Mahabharata, era affidato il compito di narrare la bella storia della dolce Sakuntala e del principe Dusyanta, una delle più famose dell’intera letteratura sanscrita.

Nel vasto repertorio dei testi proposti, l’amore compare in tutti i suoi aspetti, da quello più specificamente materiale e fisico (non mancano le ricette afrodisiache ayurvediche) a quello più spirituale e romantico, non estraneo al dolore, sia esso derivato dalle pene di un affetto non corrisposto o dalla lontananza dell’amato. Passando dalla tradizione indù a quella buddista, nemica di ogni eccesso, si giunge fino alla formulazione dell’ideale «amicizia amorevole» (metta), da estendersi in uguale misura a tutte le creature.
La divinità più spesso citata, Kama, «il cui arco sono le lunghe code degli occhi delle donne», viene evocata per mezzo di innumerevoli epiteti. Sono nomi che alludono ai dardi che scaglia e che, per quanto implacabili, hanno fiori sulla punta («Armato di fiori», «Dalle frecce fiorite», e così via), oppure evocano quella sua incorporeità che lo rende pervasivo (Ananga «L’incorporeo», essendo stato il suo corpo incenerito da Siva, vittima dei suoi strali), o – ancora – nominano le passioni irrazionali che suscita (così che viene chiamato «Passione», «Gioia della mente») o gli riconoscono la possibilità di mandare in rovina chi dalla sua divinità viene colpito («colui che distrugge»).

Del resto, questa moltitudine di caratteristiche e di epiteti spesso contrastanti ricorre in tutte le divinità e nei personaggi mitici che affollano ogni testo, raramente rappresentandoci figure interamente positive o negative. Persino Yama, il temibile dio della morte, appare nel Rgveda in preda alla tentazione di ricambiare l’amore ardente della sua gemella Yami. La divinità che più emblematicamente esprime questa ambiguità è Devi, la «Grande Dea», onorata sotto le forme di Parvati, sposa di Siva, nonché Gauri «la Dorata» e Sati «Colei che veramente è»; ma allo stesso tempo essa è temuta come potenziale distruttrice, e questa sua prerogativa la denuncia l’epiteto Durga «L’inaccessibile», che allude alla vergine bellicosa, amante di riti cruenti.

Sul caotico disordine che caratterizza tutte queste rappresentazioni di amori, umani e divini, in parte dovuto alla diversità cronologica e spaziale di composizione dei testi, domina tuttavia il principio del dharma, «ciò che è stabile e dona stabilità», la «norma», l’insieme dei diritti e dei doveri di ogni individuo secondo la natura o la casta di appartenenza. Il dharma costituisce, proprio insieme al kama, uno dei tre fini cui tende l’uomo (il terzo è l’artha «benessere materiale»), così che i soli comportamenti veramente biasimevoli risultano essere quelli che tendono a trasgredirne l’ordine.

Tra le pagine del libro si apprende anche che il valore dell’astinenza sessuale da parte degli asceti non era tanto legato a meriti di ordine morale quanto all’accumulo di «calore» (tapas) e di energie, e esso diventava tanto più grande e temibile quanto più a lungo veniva ritardata l’emissione dello sperma vitale. Perfino gli dei temevano questo genere di energia, al punto che non esitavano a inviare agli asceti più rigorosi belle fanciulle incaricate di sedurli e fare loro «scaricare» nell’amplesso questo pericoloso accumulo che minacciava di renderli più potenti della loro stessa divinità. Contrariamente alla visione giudaico-cristiana, dunque, non c’è contrapposizione, ma contiguità e quasi identificazione tra ardore ascetico e atto sessuale. L’esempio più emblematico è nella figura divina di Siva, che dopo un lunghissimo periodo di ascesi, colpito dalle frecce di Kama, si accoppierà con Parvati in un coito durato 10.000 anni, da cui si sprigionerà un’energia che rischierà di distruggere l’intero mondo.

Alla curatrice non sfugge come l’amore descritto nei testi letterari sia spesso ben diverso da quanto offre la vita quotidiana delle società indiane (spose bambine, matrimoni combinati, mariti-padroni) e quindi «rispecchi un desiderio di evasione nel mito religioso o romantico, e si rivolga a un pubblico ansioso di credere nel mondo come sarebbe bello che fosse». Tuttavia, proprio questo mondo idealizzato fornisce ancora oggi un modello cui si ispirano non solo l’industria dell’intrattenimento, per esempio Bollywood, ma anche tanti individui nella loro vita reale, se un’indagine recente ha rilevato che perfino presso le donne delle bidonville l’ideale perseguito è quello della pativrata, che sta a indicare nella dedizione allo sposo un voto religioso: «Anche dopo che i mariti le avevano battute, tradite o abbandonate».