Ad apertura di Critica e Finzione (raccolta di saggi e interviste pubblicata da Mimesis nel 2018), Ricardo Piglia conferma il suo interesse per la «zona indeterminata dove si incrociano finzione e verità. Prima di tutto perché non c’è campo che appartenga soltanto alla finzione. (…) La realtà è intessuta di finzioni». Il testo è del 1984, ma sembra quasi annunciare un romanzo futuro, ovvero Plata Quemada, apparso tredici anni dopo e da collocare proprio in quello «spazio indecidibile tra verità e falsità» che Piglia scelse come proprio territorio. Quanto caleidoscopica e sofisticata sia la partita che lo scrittore argentino ha giocato in questo noir cupo ed estremo, che sembra rompere con la sperimentazione delle opere precedenti – e che forse ne sta solo azzardando una di altro tipo -, i lettori potranno scoprirlo grazie alla nuova edizione proposta da Sur (Soldi bruciati, pp.194, euro 15, traduzione di Pino Cacucci), da affrontarsi con l’avvertenza che il «patto di lettura» suggerito nell’Epilogo è alquanto inaffidabile.

A CONCLUSIONE del romanzo, infatti, l’autore parla di «una storia realmente accaduta» e dei «materiali autentici» come articoli, verbali di interrogatori, relazioni di psichiatri, testimonianze, interviste, intercettazioni, grazie ai quali ha ricostruito il sanguinoso assalto a un portavalori avvenuto nel 1965 in un sobborgo di Buenos Aires e la successiva fuga in Uruguay dei banditi, il cui ultimo rifugio (un appartamento dell’Edificio Liberaij, nel centro di Montevideo) venne assediato dalla polizia per quindici ore. Ma quella di garantire l’assoluta veridicità del racconto (scritto trent’anni dopo i fatti, quando erano ormai il «ricordo perduto di un’esperienza vissuta»), è in realtà una strategia interna alla poetica di Piglia, che prevede la creazione di testi ibridi, destabilizzanti, pronti a sovvertire forme e generi, insediati in luoghi di confine e in una dialettica costante tra «vero» e «falso». Come per cambiare retroattivamente la percezione del testo e guidare altrove il lettore, Piglia non esita ad aprire nell’Epilogo una serie di falle: tra le più vistose, la citazione delle cronache di un giornalista argentino chiamato Emilio Renzi, ossia l’alter ego dello scrittore, personaggio ricorrente che appare anche in Soldi Bruciati ed è protagonista dei celebri Diari pubblicati tra il 2015 e il 2017.

L’EPILOGO, insomma, ci racconta una seconda storia (quella dell’indagine che precede la scrittura e introduce l’autore come detective) ed è finzionale quanto il testo, ricco di magnifiche differenze dai fatti «autentici», puntigliosamente ricostruiti dal giornalista Leonardo Haberkorn nel libro-indagine Liberaij. Soldi bruciati non è dunque un docuthriller come Il caso Satanowsky di Rodolfo Walsh e A sangue freddo di Truman Capote, ma «la versione argentina di una tragedia greca», dove gli eroi sono delinquenti che vanno incontro al loro destino imbottiti di cocaina e alcol, imbracciando pistole e mitragliette.

UNA TRAGEDIA, sì, ma presentata sotto le crude spoglie di un hard-boiled – Piglia lo preferiva alla vocazione per l’ordine del poliziesco classico- rivisto in termini che potremmo definire «locali» e sostenuto da una vasta polifonia di linguaggi e voci, da una perfetta ricomposizione di frammenti e vicende marginali, da una rete di allusioni alla storia politica, sociale ed economica dell’Argentina e dall’affiorare di una tradizione letteraria testimoniata da innumerevoli citazioni sotterranee (Lucio Mansilla e Osvaldo Lamborghini, Esteban Echeverría e José Hernández, e soprattutto Arlt, del quale Piglia ha fatto una lettura critica approfondita e innovatrice).

ACCOMPAGNATI da un coro di figure femminili non irrilevanti, ma comunque secondarie in una storia essenzialmente «virile», che si interroga sull’incerta costruzione del ruolo maschile, quanto sull’omoerotismo inteso come libera circolazione del desiderio, emergono i protagonisti, ciascuno sigillato nelle sue private paranoie: il Nene Brignone, ragazzo borghese a caccia di fuggevoli incontri omosessuali, trasformato dal carcere in glaciale assassino; Malito, capobanda perfezionista che scompare senza lasciare traccia; il Cuervo Mereles, immerso nella serenità imperturbabile degli oppiacei; il commissario Silva, il cui metodo di indagine si identifica con la tortura e che si precipita in Uruguay per eliminare, insieme ai banditi, le possibili tracce dei loro mandanti; e poi la figura enigmatica e ammaliante del Gaucho Dorda, un campagnolo sfuggito al manicomio, con la testa piena di voci che non tacciono mai e lo inducono a compiere gesti (e delitti) inesplicabili, o a emettere folli sentenze dal sapore biblico.

Nel finale, la scena gli appartiene per intero: il Cuervo e l’amatissimo Nene, suo «gemello» e occasionale amante, sono morti in una sorta di apocalisse bellica, rispondendo al fuoco incessante della polizia; poco prima della fine, inoltre, è Dorda ad avere l’idea di bruciare la montagna di soldi che li ha condotti fin lì e di lanciare le banconote in fiamme dalle finestre del Liberaij, su una folla esterrefatta e furibonda davanti all’olocausto di tanto «denaro innocente». Massacrato ma non arreso, il Gaucho verrà fatto prigioniero dopo aver recuperato memorie smarrite, parole non dette, immagini che gli restituiscono il passato (il suo e quello antico della pampa da cui proviene), e la storia «realmente accaduta» cederà così il posto al sogno, alla visione, a finzioni assolutamente reali.

ASSASSINI PRONTI a superare ogni limite, ossessionati dalla droga e dalla libertà totale e immediata offerta dal denaro, Dorda e i suoi compagni sembrano gli unici in grado di compiere un gesto sprezzante come quello di accendere un rogo che mette alla berlina i pilastri simbolici della società («Rapinare una banca è poco cosa al confronto di fondarne una», dice l’epigrafe brechtiana del romanzo).

E se il grandioso falò conclusivo, insieme alla decisione di resistere fino all’ultimo, dà alla storia una coloritura eroica, la caotica violenza dei fuorilegge e dei loro avversari sembra annunciarne un’altra, più pervasiva e «ordinata»: di lì a pochi mesi l’Argentina avrà un nuovo dittatore, Juan Carlos Onganía, che inaugurerà il suo regime con la feroce «notte dei lunghi bastoni». E poi il massacro di Ezeiza, José López Rega e la Triple A, la guerra sporca dei Generali… Piglia sapeva bene, nel raccontare quel «caso secondario e ormai dimenticato di cronaca nera», che stava prevedendo il passato e ricordando il futuro.