Xenia vuol dire in greco ospitalità. Ma il suo significato, ci dice Panos H. Koutras, è più complesso, si radica nella mitologia e rimanda alla legge degli dei che chiede di accogliere e onorare uno straniero da qualsiasi luogo del mondo provenga. Koutras non ha dunque chiamato Xenia il suo film (Certain regard) per caso. Il nome è quello di un vecchio hotel di lusso abbandonato, probabilmente chiuso dalla crisi che divora il paese. È tra le sue mura scassate che trovano rifugio due fratelli, Dany e «Ody», il maggiore, che si chiama Odysseas, un altro nome del Mito, per un lungo viaggio nella Grecia contemporanea, che con le amministrative di qualche giorno fa ha reagito alle politiche neoliberiste di «salvataggio» e rigore imposte dal governo di «grande coalizione» dei socialisti e dei conservatori di Nea Demokratia votando la sinistra radicale di Tsipras.

Anche i neonazisti di Alba Dorata però hanno ottenuto percentuali alte, dire basta all’Europa nelle politiche della destra – vedi qui in Francia la crescita dell’Fn – diventa xenofobia, azioni squadriste contro gli stranieri, repressione privata che si aggiunge a quella istituzionale. La vita è dura nelle strade di Atene specie per chi come i due fratelli protagonisti non è greco. Dany e Ody sono albanesi, Dany è cresciuto a Creta con la madre, e ora che è morta ha raggiunto il fratello a Atene. Ha sedici anni, il lecca lecca sempre in bocca, e un coniglio di pezza Dido – voilà – qualche allucinazione e una passione per Patty Pravo. Tutto qui.

È gay e lo esibisce nel look, altro rischio, nei loro raid in moto i neonazi picchiano oltre ai migranti anche i gay urlano via froci. E così gli albanesi, machismo diffuso della frustrazione. Ody invece ha diciotto anni, è diventato clandestino, tutti e due rischiano di essere espulsi e di finire in Albania un paese che non conoscono neppure…Per questo vogliono cercare il padre, essere riconosciuti gli permetterebbe di avere la cittadinanza.

Xenia nasce dal desiderio del regista di raccontare un romanzo di formazione, la fine dell’adolescenza, che è quella di Dany, la sua omosessualità – sì anche il regista è gay – e cosa significa essere stranieri in un posto come la Grecia (Europa?) adesso. Quel Paese che il film attraversa, da Atene a Thessaloniki, in una ricerca omerica del Padre, appare segnato, stanco: povertà, disillusione, violenza. I quartieri marginali, obiettivi privilegiati dei raid neonazi, i centri di detenzione, la polizia brutale.

Il cinema e il nostro tempo. È una scommessa di sempre, che ricorre (percorre) le immagini resa ora più feroce. Non si tratta solo di raccontare ma di inventare, di spostare gli obiettivi liberando l’orizzonte delle emozioni, l’imprevedibile, qualcosa che cattura per rompere l’abitudine dello sguardo. Ed ecco che la Grecia in crisi appare come un paese mitologico, quello che è, e talvolta picaresco, con punte allegre e personaggi stravaganti che alla realtà impongono dei detour rendendola più forte. Koutras inventa un mondo, il suo – complice la luce incantata di Helen Louvart filmando letteralmente le visioni del suo giovane protagonista – complice la luce incantata di Helene Louvart, la stessa direttrice della fotografia di Le meraviglie tra cui dissemina le sue paure. Il coniglio che diventa gigantesco, ultimo saluto all’adolescenza, mentre come gli antichi archetipi dell’Odissea i due ragazzi scivolano nella notte sulla barca di La morte corre sul fiume. Incubi infantili, e angoscia di crescere, complicità e legami familiari che contano più di quelli «veri» come lo strano tipo con parrucca e baffi che si chiama Tanasso e che gli fa da padre adottivo.

http://youtu.be/kIs_yV9Lzr4

La sorpresa bella di questo film è che non sembra avere paura di niente. Del riso e del pianto, del corpo e degli eccessi: melodramma, un musical pop italiano con le coreografie amorose su Rumore. Una discoteca si chiama Fantastiko, un avvocato che è Antigone, Canzonissima e i reality, il sogno di Dany che vorrebbe iscrivere a una specie di Amici con una canzone di Patty Pravo naturalmente il fratello. Come il suo personaggio, a cui il regista è legato da una privilegiata empatia, Koutras percorre la realtà attraverso l’immaginario, mischiandone codici, generi, referenze con spregiudicata irriverenza. I suoi sono eroi fragili, e confusi, ragazzini come la maggioranza dei protagonisti dei film visti questi giorni, ma col desiderio bruciante di avere ancora qualcosa sogno. Di resistere al mondo brutale in cui si trovano per inventarne un altro, una finestra piccola dove l’orizzonte è ancora quello del possibile.