Tra gli episodi del Robinson Crusoe ce n’è uno che rappresenta emblematicamente la capacità del protagonista di collaborare con la Natura, resistendole quanto basta per incanalarne la forza: è la scena in cui Robinson trattiene le provviste per impedire che cadano dalla zattera incagliata, nell’attesa che la marea la liberi facendo risalire il livello dell’acqua. L’ingegno di Robinson gli permette di far fronte agli elementi, senza aderire completamente a nessuno dei due paradigmi classici su cui s’imposta il rapporto tra uomo e natura: il dominio per diritto di nascita e il conflitto per virtù morale. Il suo comportamento è ispirato piuttosto da un’operosa intelligenza, che rende umanamente funzionale ciò che all’uomo per natura non spetterebbe. È in questa capacità che risiede uno dei tratti dell’eroe borghese, di cui Robinson è universalmente considerato tra i capostipiti.
Dalla scena della zattera parte, non a caso, il saggio di Francesco de Cristofaro, nel volume da lui curato insieme a Marco Viscardi: Il borghese fa il mondo Quindici accoppiamenti giudiziosi (Donzelli «Saggi. Arti e lettere», pp. 450, euro 35,00). Il libro nasce dall’attività dell’Opificio di Letteratura Reale, cui hanno preso parte studiosi di generazioni diverse alla «Federico II» di Napoli; vede la luce ora, dopo tre anni di incontri e seminari, insieme a due ‘gemelli’ prodotti dallo stesso laboratorio: gli atti del convegno Borghesia disambientata e il dossier Borghesia. Approssimazioni nella rivista «Status Quaestionis». Sullo sfondo, un libro recente: Il borghese. Tra storia e letteratura di Franco Moretti (uscito nel 2013 e tradotto in italiano per Einaudi), di cui viene qui riprodotto il capitolo finale su Ibsen. In questo panorama, l’originalità del volume curato da Viscardi e de Cristofaro risalta già dalla struttura, basata sugli ‘accoppiamenti giudiziosi’ cui allude gaddianamente il sottotitolo: ciascun capitolo mette in luce un aspetto del borghese letterario, attraverso l’accostamento di opere esemplari, al centro di due saggi di altrettanti studiosi. Ai quindici capitoli sono inframmezzate la sezione «Conversation piece» (in omaggio a un genere pittorico affermatosi proprio nei paesi – Inghilterra, Olanda – in cui la civiltà borghese ha messo le prime forti radici), che ospita i contributi extravaganti (ma non troppo) di Toni Servillo e Elio De Capitani; e l’«Iconografia. Borghesia disambientata», composta da sedici scatti in bianco e nero (di Cesare Accetta, Monica Biancardi, Ludovico Brancaccio e Flavio Gregori), che rappresentano figure e situazioni di spaesamento, a esprimere la perdita d’identità del borghese nel mondo contemporaneo.
In fondo, però, il borghese ha sempre messo in gioco la propria identità, incarnando anche i valori della rivolta o del rifiuto rispetto a un ambiente di cui non sempre ha potuto o voluto appropriarsi. Lo mostrano già gli esempi presi in considerazione nel primo capitolo (il titolo è eloquente: «Preferiremmo di no»), nel quale Sergio De Santis e Giovanni Maffei si occupano rispettivamente del Bartleby di Melville e dei romanzi di Huysmans. Un’accoppiata da cui già si comprende quanto sia varia la casistica del personaggio borghese e quanto mutevole sia il suo profilo, quanto capace di evolversi per opposizione e contrasto («I would prefer not to», appunto) più ancora che per adesione a un codice comportamentale o a valori predefiniti. Se è vero che «il borghese fa il mondo», lo è anche che «il mondo fa il borghese»: lo ‘fa’, nel senso che lo spinge ad adattarsi, ne realizza le attitudini. È la stessa dialettica tra iniziativa di controllo e disponibilità all’attesa che caratterizza la figura di Robinson in situazioni come quella evocata all’inizio.
Diversamente dagli studi che tendono a identificare il borghese con un tipo ideale e con uno stile (sia in senso sociale ed esistenziale, sia in senso propriamente letterario: lo stile di parola e di pensiero del borghese, di cui scrive Moretti ad esempio), il volume di de Cristofaro e Viscardi moltiplica i punti di osservazione, forzando canoni e stereotipi. Il rischio, certo, è quello di sfumare la specificità dell’oggetto, ma vale la pena correrlo per arrivare ad esempio a capire come nel protagonista borghese possano convivere «dato di realtà e immaginazione, calcolo e droghe, lucidità e morfina, esattezza e intuizione»: è il ritratto di Sherlock Holmes, descritto in questi termini da Emanuele Canzaniello, che firma i corsivi di apertura dei capitoli. Sherlock Holmes è un eroe borghese? Risponde alla domanda il saggio, così intitolato, di Riccardo Capoferro, cui fa da pendant il ritratto di Maigret «borghese primordiale», disegnato da Viscardi nel saggio contiguo.
Lungo un percorso in tre tappe (o ‘movimenti’: Il borghese; Il borghese fa, Il borghese fa il mondo), «che dall’individuo che misura e dispone porta all’individuo che lo esorbita e se ne fa inghiottire» (così i curatori nella Premessa), incontriamo coppie più o meno affiatate ma comunque giudiziose: tra le altre, quelle formate da: Le Bourgeois gentilhomme di Molière (ne parla Francesco Fiorentino) e Miseria e nobiltà di Scarpetta (Matteo Palumbo); Barry Lindon di Thackeray (Enrica Villari) e The Duel di Conrad (Claudio Gigante); The Years di Virginia Woolf (Antonio Bibbò) e Lessico famigliare di Natalia Ginzburg (Elisabetta Abignente); Histoire de la grandeur et de la décadence de César Birotteau di Balzac (Gennaro Carillo) e Bleak House di Dickens (Clotilde Bertoni); Storia filosofica dei secoli futuri di Nievo (Ugo M. Olivieri) e Germinal di Zola (Pierluigi Pellini).
Cosa resta, al punto estremo di questo panorama, di eroi e antieroi borghesi nelle narrazioni dei giorni nostri? Incorniciata da un prologo e da un epilogo all’insegna di due personaggi dalla lontana e inattesa parentela (l’Homais di Madame Bovary e l’Homer dei Simpson), l’avventura del borghese trova qui una conclusione non risolutiva nel destino di un grande scrittore: David Foster Wallace, emblema della «straziata aporia» che «marchia senza redenzione una borghesia disfatta dal mondo».