Cultura

Ernesto Neto, il corpo della terra è un ricordo sonoro e odoroso

Ernesto Neto, il corpo della terra è un ricordo sonoro e odorosoErnesto Neto, particolare dell'installazione al Maat di Lisbona – Foto de Joana Linda

Intervista L'artista brasiliano parla della sua opera esposta al Matt di Lisbona. «L’aspetto olfattivo è importante. Radici, semi, spezie creano una sorta di ipnosi e suggestioni evocative con atmosfere che hanno a che fare con la nostra storia personale e con lo spirito delle piante»

Pubblicato circa 2 mesi faEdizione del 31 luglio 2024

È un’esperienza multisensoriale entrare al museo Maat di Lisbona, dove si è accolti da Nosso Barco Tambor Terra, tra le sculture più grandi che Ernesto Neto abbia mai realizzato. Il visitatore è invitato a entrare nell’opera, per esplorarla, sedersi e/o suonare tamburi, maracas, nacchere e altri strumenti a percussioni. I suoni si diffondono nel museo insieme all’odore delle spezie e delle erbe medicinali, inserite in sacchetti realizzati a mano con la tecnica del crochet.

LA FORMA dell’opera ricorda le vele delle caravelle che salparono da Lisbona per le Americhe, afferma Neto, ed è il risultato di mesi di lavoro, prima nel suo studio all’Atelienave a Rio de Janeiro, e poi al Maat, dove il chintz lavorato all’uncinetto è stato assemblato in dialogo con lo spazio e l’architettura del museo, progettato dallo studio londinese Amanda Levete Architects.
«L’installazione si è sviluppata come fosse una danza – afferma l’artista – e durante questa danza sono accadute delle cose. Potrei dire che è stato il chintz, e non il tessuto di nylon che ho spesso usato, a scegliere me (ride, ndr). Ogni mio lavoro cerca di creare delle relazioni e di attivare delle connessioni tra il nostro corpo e quello della terra. Ad esempio, il chintz è molto comune in Brasile ed è spesso stampato con immagini floreali. Anche se lo si taglia, come è accaduto con Nosso Barco Tambor Terra, e perdiamo la totalità delle immagini, rimane comunque la vibrazione delle piante, che diventa una sorta di polline che si diffonde nell’opera».
Nato a Rio de Janeiro nel 1964, Neto si serve di tessuti e di elementi naturali, come spezie, sabbia ed essenze per realizzare installazioni ambientali dalle forme biomorfe, in cui suggestioni minimaliste sono in dialogo con il neo-concretismo e altri movimenti brasiliani degli anni ’60 e ’70.
È stata l’installazione Ô Bicho! presentata alla 49/a Biennale di Venezia curata da Harald Szemann nel 2001, a focalizzare su di lui l’attenzione internazionale, oltre al fatto che in quella stessa edizione rappresentava il Brasile (insieme a Vik Muniz). Sue mostre personali sono state presentate al Mam di São Paulo, al Centre Pompidou di Parigi, al Moma e al Solomon R. Guggenheim Museum di New York, per ricordarne solo alcune.
Dal 2014 collabora con i nativi Huni Kuin che vivono nella foresta pluviale tra lo stato brasiliano dell’Acre e il Perù. Anche loro sono stati parte del public program della mostra in un talk in cui hanno parlato delle pratiche artistiche e sociali che guidano le loro cultura ancestrale. «Le origini afro-brasiliane del mio paese sono molto importanti per me – aggiunge Neto –. Le sto studiando, e non solo sui libri perché l’apprendimento principale avviene attraverso le mani, che sono grandi maestre. Suonare a la Bateria do balança mas não cai a Rio de Janeiro è per me un’esperienza immersiva. La musica trascende il linguaggio verbale e facilita incontri autentici e profondi. Per questo ho incluso diversi strumenti musicali nell’installazione, per incoraggiare gli spettatori a suonare e ad avere un’esperienza partecipativa».

Ernesto Neto, credit Pepe Schettino

LA MODALITÀ ESPERIENZIALE fa pensare a l’estetica relazionale e al libro scritto da Nicolas Bourriaud nei tardi anni ’90, anche se è preferibile confrontarsi con l’artista stesso rispetto a questo tema. «La scena sperimentale brasiliana degli anni ’70 – dice – è stata molto significativa per la mia formazione, in particolar modo il lavoro di Hélio Oiticica e Ligia Pape. Considero Lygia Clark una mia antenata, anche se non abbiamo legami di sangue. In Brasile siamo ancestralmente mescolati con indigeni e africani, culture per cui l’esperienza artistica è sempre interattiva e inclusiva, basti pensare alla samba. I Bicho di Lygia Clark, piccole strutture completamente manipolabili, che si dispiegano come molteplicità potenziali, sia strutturalmente sia organicamente, sono un esempio di questo».
Ma torniamo a Nosso Barco Tambor Terra, visitabile fino al 7 ottobre. La mostra, curata da Jacopo Crivelli Visconti, è animata da un interessante programma di eventi collaterali come il Book Club, in cui Neto racconta i libri che sono stati alla base della creazione dell’opera, sessioni musicali, proiezioni di film, il tutto accompagnato da diversi talk.
«Vorrei sottolineare l’aspetto olfattivo – conclude Neto – . Radici, semi, spezie, creano una sorta di ipnosi, e suggestioni evocative che ci permettono di abbandonarci a atmosfere che hanno a che fare con la nostra storia personale e con lo spirito delle piante. Solo in questo modo si può vivere un’esperienza sensoriale completa».

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