Nel 1896 usciva a stampa l’edizione critica del De vulgari eloquentia curata dal sommo filologo Pio Rajna. Ernesto Giacomo Parodi, giovane burbero e talentuoso piovuto da Genova a Firenze a fine anni Ottanta e tra i pochissimi a poter guardare Rajna negli occhi, sentenziò che in quel libro «il metodo lachmanniano, squisitamente logico per sua natura, ebbe una delle sue applicazioni più perfette e, sicuro, più originali». L’approdo del metodo filologico in Italia – è sempre Parodi a guidarci tra le pagine della sua godibile raccolta Il dare e l’avere fra pedanti e geniali (1923) – si colloca nella seconda metà dell’Ottocento, «intorno al ’60», e «più rigorosamente si determina intorno al ’70». In quel libello il filologo ligure fustigava l’antidantismo primonovecentesco dei vari Papini e Prezzolini, stilando un bilancio equilibrato tra metodo storico / filologico e rampante critica estetica (o estetizzante) di marca crociana; ma la sua testimonianza vale per noi in quanto individua in Rajna colui che avrebbe applicato per la prima volta (il condizionale è d’obbligo perché non fu il primo) il metodo stemmatico a un testo della nostra tradizione letteraria, ossia proprio il De vulgari. Quel metodo sarà raccolto, raffinato e portato a perfetta applicazione da Michele Barbi nell’edizione critica della Vita nuova (1907 e 1932) e negli Studi sul Canzoniere di Dante (1915).
Nel clima di fervoroso accoglimento della dottrina tedesca (ma non si dimentichi il tramite francese di Gaston Paris, su cui si formò primariamente Rajna) si muove, in Italia, la sagoma imponente e vigorosa di Ernesto Monaci (1844 – 1918). Approdato agli studi letterari dopo la laurea in diritto, Monaci entrò presto in contatto con i maggiori esponenti della scuola tedesca. Agli anni successivi – cito solo le punte – risalgono la fondazione della Rivista di filologia romanza (ribattezzata più volte fino agli «Studj romanzi» del 1903) e soprattutto l’esemplare Crestomazia italiana dei primi secoli, di lunga gestazione, uscita prima a fascicoli e poi in volume (1912). Incaricato a Roma di una delle prime cattedre di storia comparata delle lingue neolatine, Monaci raggiunse l’ordinariato nel 1881: furono decadi di attività editoriale e scientifica intensissima che lo videro corrispondere a distanza con i maggiori studiosi d’Italia e d’Europa (Ascoli, Mussafia, Rajna, Meyer, Gröber etc.).
Per fare il punto e per fare luce sul ruolo che Monaci rivestì nella rinascita e nell’affermazione degli studi filologici in Italia vanno ora messe a bilancio due benemerite iniziative promosse dalla Accademia Nazionale dei Lincei e dall’Università di Roma ‘La Sapienza’ e approdate ad altrettanti volumi: Ernesto Monaci 1918-2018. Lo studioso nel tempo (Accademia Nazionale dei Lincei – Bardi Edizioni, pp. 339, € 27,00) ed Ernesto Monaci 1918-2018 La fondazione della Filologia romanza e della Paleografia in Italia, a cura di Roberto Antonelli e Arianna Punzi (numero monografico della rivista «Studj romanzi», Società Filologica Romana, Viella editore, XV, n.s., 2019, € 50,00). Sulla figura di Monaci grava infatti la pesante stroncatura che Giorgio Pasquali affidò alla recensione della Vita nuova di Barbi (1932) inchiodandolo, contro i metodi della moderna scienza filologica, al ruolo di difensore del codex optimus: una predilezione, quella di Monaci, per le edizioni di carattere diplomatico-interpretativo e quando possibile per la riproduzione fotografica, cui forse non era del tutto estranea la sua formazione giuridica.
Come ben chiarito da Antonelli nella seconda delle raccolte citate (Ernesto Monaci: filologia materiale), prevaleva in Monaci «un rispetto storico-documentario» del singolo manoscritto che in quanto materiale «comunque storico … assume un valore fondamentale». L’edizione diplomatico-interpretativa (e, quando possibile, la riproduzione fotografica) rivestiva perciò una duplice valenza oscillante tra una fase che potremmo definire preparatoria alla vera e propria edizione ricostruttiva e un momento più propriamente didattico, autentica palestra per esercitare gli ingegni dei filologi in erba. Censimento e studio dei manoscritti costituivano dunque un passaggio preliminare agli stadi successivi, alla analisi comparativa. Da qui l’enfasi, forse eccessiva, sull’inanità della pratica stemmatica che, se priva di questi presupposti, si offriva come «eterno passatempo di certe Penelopi» (così Monaci nel 1880, ma si badi alla data), del tutto inadatto, per esempio, al processo formativo mirato agli studenti delle scuole superiori.
Per contro, proprio questa enfasi per la fase propedeutica, questa attenzione al momento preliminare e documentario, costituirebbe, ad avviso di Antonelli, una sorta di intuizione di quella che in tempi più recenti è stata etichettata – non di rado in polemica rivendicazione verso la filologia ricostruttiva – philologie matérielle: in breve – e, ahimè, a rischio di essere frainteso – i codici non vanno esaminati solo in quanto portatori di lezioni buone o cattive ma nella loro materialità, dalla rigatura alle stratificazioni della scrittura (e della lingua) dei copisti, dallo spessore della pergamena alla qualità degli inchiostri e così via. Un precursore, dunque, Monaci e non un attardato, come voleva Pasquali.
Sul punto non manca tra i due volumi una feconda dialettica: Luciano Formisano (Ernesto Monaci romanista, negli Atti Lincei), per esempio, non sembra allontanarsi da una visione tradizionale, per cui in Monaci sarebbe prevalsa «una sorta di feticismo per il manoscritto e per l’edizione diplomatica, per il quale lo studioso può essere senz’altro avvicinato a Paul Meyer». Questa del resto era anche, con le dovute distinzioni, la percezione di alcuni contemporanei, e basti su tutti il passaggio della commemorazione di Francesco D’Ovidio (1918): «le edizioni critiche gli erano in massima parte sospette, e per finir con gradirle aveva una repugnanza da superare». E in effetti anche quando Monaci si cimenta nella spinosa classificazione dei manoscritti della Commedia (1888), rimane l’impressione che si attesti al di qua della distinzione tra errore e variante e che i cenni alle famiglie di codici occhieggino come esercizio teorico e mal tollerato.
Tornano alla mente i dubbi che attanagliavano un altro filologo rimasto al di qua della rivoluzione lachmanniana, il carducciano Flaminio Pellegrini, incaricato da Barbi di affiancare ancillarmente proprio Parodi per l’edizione del Convivio del 1921. A irrigidire le prospettive – anche in riferimento alle posizioni di Pasquali – concorse certo la montante avversione, in Italia, verso un seducente bédierismo (gli attacchi di Bédier al metodo del Lachmann datano già alla seconda decade del Novecento). Si comprende come in una temperie accademica educata ai precetti di stemmatica di Rajna (li codificò in coda all’Avviamento allo studio critico delle lettere italiane di Guido Mazzoni del 1907) e che vedeva al suo apice l’astro di Barbi e all’orizzonte il sol levante di Contini, la memoria di Monaci non potesse transitare indenne.