La luce dall’alto taglia l’azzurro, c’è il sole sull’altopiano di Asiago. Magari fosse stato sempre così mentre si girava, dice il ragazzo che ci accompagna. Saliamo, la neve è leggera, attraversata da una linea scura di legno e sacchi e fango. La trincea. E qui che Ermanno Olmi ha appena finito di girare il suo nuovo film, torneranno i prati, (uscita prevista in autunno forse prima la Mostra di Venezia) un titolo che sembra quasi parlare della primavera che si affaccia tra le macchie di erba qua e la. Ma i suoi prati sono altri, sono quelli che immaginano i soldati nella trincea scavata un secolo fa aspettando gli austriaci giorni o forse attimi prima della sconfitta di Caporetto. «Dopo la disfatta tutti tornano a casa loro e dopo un po’ torneranno a fiorire i prati» dice il regista dei Centochiodi.

È infatti la prima guerra mondiale che racconta Olmi nell’anno delle celebrazioni. L’Italia in guerra ci è entrata dodici mesi dopo, nel 1915, una distanza importante spiega Olmi perché in quell’anno sono accadute tante cose di fronte alle quali ancora oggi c’è da abbassare gli occhi dalla vergogna. «Si sono mercanteggiate le condizioni dell’intervento. I Savoia che come sappiamo sono sempre stati molto distratti hanno preso tempo per vedere se gli conveniva rimanere neutrali, se allearsi con gli austriaci, e alla fine hanno deciso di schierarsi con le potenze che rappresentavano anche nuovi mercati possibili…».

Sorride e insieme si accalora parlando della guerra di ieri e delle guerre di oggi, ma anche di quella nostra democrazia tradita, immersa in una sonnolenza che somiglia a una nebbiolina. Eppure i rischi ci sono, e sono terribili, persino più di ieri. Dunque, cosa fare? Dove cercare un qualcosa in più rispetto a ciò che non sappiamo? È lui a porre le domande, ben deciso a prendersi tutto il tempo per trovare le risposte, quelle che il suo cinema cerca sin dai primi film, e con maggiore determinazione andando avanti nel tempo, percorrendo caparbio i crinali in bilico dell’umano.«Poi guai a pensare che qualcuno sia mandato da Dio visto che non c’è neanche Dio» dice.

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E anche questo film che torna sul senso della responsabilità, su cosa significa, e su come opporsi a ciò che dell’umano tradisce il sentimento e la ricchezza – «Dovremmo imparare dai bambini prima che vengano guastati da noi adulti» – è una scommessa. Lo è stata appunto la lavorazione resa difficile dalla meterologia che ha imposto di cambiarne la struttura: Olmi voleva girare in tempo reale ma ha dovuto rinunciare: «Le trincee erano sparite sotto cinque metri di neve, per spalare ci volevano 200 autocarri… Non solo. Mettiamo che si decideva di fare una ripresa diurna, c’era il sole, bene, poi dopo cinque minuti arrivava la nebbia e non si vedeva più niente, e quando si andava a fare un controcampo nevicava, poi usciva di nuovo il sole… Finché mi sono detto, basta non voglio più combattere gli eventi naturali. Ho pensato a Orson Welles che nell’Otello fa interpretare Desdemona a diverse attrici. Un sentimento è universale, va al di là delle fisionomie … Il mio montatore (Paolo Cottignola, ndr) ha detto che i materiali sono molto dignitosi. Io non guardo mai il girato prima di andare in moviola, voglio che sia una sorpresa anche per me». Divaga Olmi, cita Camus, Einstein, e Manuel Puig. «Sono un uomo in fin di vita con la speranza di andare in paradiso senza critici, con i vecchi film … » quando gli si chiede se oggi il cinema ha ancora il potere di cambiare il mondo. Sfoglia i suoi appunti, le frasi degli scrittori che ama, le lettere sui giornali, i fatti di cronaca.

Le note stringate della sinossi ci dicono che siamo sul fronte del nord est e che il racconto si svolge in una sola nottata tra giovani soldati che non hanno nome, che sono il tenentino, la vittima, il volontario, l’ufficiale territoriale. Sulla storia, su cosa accade lui glissa: «Ma immaginate che in una suspence si chiede di rivelare l’assassino?». Di certo sappiamo però che l’occasione, il centenario di cui si diceva, non sarà una celebrazione. Ma questo sta nelle cose, fa parte di quella scommessa poetica, la sua, che è una vita intera.

Perché questa guerra, chiede e si chiede Olmi. «Lo sventolio di bandiere che c’è in tutte le celebrazioni è necessario ma non può essere solo questo. Perché questa guerra è la prima domanda da porsi, visto che le versioni ufficiali sono piene di bugie mostrate come atti di prudenza ma che impediscono di sapere perché è successo, e così la storia non può essere maestra».

«Voglio capire perché in modo che non succeda più è una frase detta infinite volte. Ci sono dei venti contrari, e oggi dentro di me ho più di qualche tremore.La guerra è la più grande stupidità criminale che l’umanità possa compiere. È come dire essere onesti, se non è messo in pratica rimane soltanto un’affermazione di principio». Sarà per questo che Olmi ripete spesso un motto di Camus: «Perché un pensiero cambi il mondo deve prima cambiare la vita di chi lo dichiara».

Torniamo al film. Sappiamo poco ma abbiamo qualche indizio. Una frase di Olmi intanto: « Il vero nemico forse siamo noi stessi. Il volto del nemico sta dentro di noi, nei piccoli fatti quotidiani, nei nostri fallimenti. I soldati sono i poveri che si riconoscono tra loro, sono le stesse persone separate dalle linee della carta geografica… È una brutta cosa questa delle carte, è come pensare che il cimbro che si parla qui passato il confine sparisca …».

I soldati di Olmi sono lì per spiare il posizionamento nemico, devono muoversi nella notte quando tutto è più indefinito e il rischio di morire è una certezza. «Siamo alla vigilia di un combattimento su tutto il fronte. Le trincee si scavavano a otto metri sotto terra per mettere le mine, si doveva farlo senza essere visti dal nemico e prima di loro. Qui sono stati i tedeschi a arrivare per primi».

Non è la prima volta che Olmi racconta la guerra, c’è stato Il mestiere delle armi, e poi quel vecchio progetto di film da Il sergente della neve di Mario Rigoni Stern il suo amico fraterno – le case le vediamo salendo dal bus sono una vicina all’altra – ma che non venne realizzato. E però non è una battaglia di resistenza ai dogmi in nome della responsabilità anche quella del protagonista di Centochiodi? Le trincee ricostruite sono strette, dalle feritoie il cielo appare beffardo. La memoria dei luoghi, le storie, i personaggi che tornano come Toni il matto nei Recuperanti con i suoi ricordi della grande guerra.

Nei giorni di neve e di vento ghiacciato sul set si gelavano i piedi, le facce si facevano viola con gli sbuffi del fiato condensati e le mani sfregate l’uno contro l’altra. Era così a cercare un po’ di calore. Era così e peggio cent’anni fa sull’altopiano, e per questo Olmi nonostante le intemperie di girare in studio non ci ha mai pensato.

«Chi scrive la storia non è quasi mai chi l’ha patita. Qualche giorno fa ho letto la lettera di una signora che lamentava già la retorica di questo centenario. Diceva che la ricostruzione storica era stata affidata al signor Venduscka che è già un nome da sceneggiato, per parte austriaca, e a Furlani, un bibliotecario molto stimato per parte italiana. Ma cosa sanno davvero della guerra? Anche gli scrittori come Gadda, Rigoni, Lussu con una sensibilità percettiva che gli storici non hanno, e che hanno vissuto gli accadimenti di cui parlano, li hanno però metabolizzati nel romanzo, nella dimensione letteraria».

Su cosa ha lavorato perciò Olmi, assistito sul set da Maurizio Zaccaro? Ci pensa, fuori dalle vetrate scintilla la neve. « Ho trovato una verità straordinaria nelle pagine degli anonimi, coloro che non hanno un Nome, e che hanno dato racconti struggenti. La Storia ufficiale è quella degli intellettuali, quella reale di coloro che non hanno parola».

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«Ogni generazione ha le sue guerre. Ma come non provare angoscia di fronte a guerre che non sappiamo neppure che esistono. Lo scrive Stajano, e oggi con le agitazioni dei popoli stufi di essere come un gregge il pericolo è molto alto. Ciascuno di noi è parte del tutto e deve agire secondo il precetto della democrazia che abbiamo faticosamente conquistato». Ecco perché lui, Olmi, ce l’ha molto con chi non vota -« Sono i peggiori, disprezzano la democrazia». «Mi chiedo se c’è un modo per liberare la democrazia da questa sonnolenza, vorrei davvero che qualcosa la scuotesse».

Proviamo allora a immaginare questi «suoi» ragazzi lì dentro nell’oscurità; non si fanno mai domande perché quelle generazioni non se ne facevano – e che alla fine incontrano il nemico, o se stessi? «Nel film la responsabilità passa per la disobbedienza che attuano un ufficiale e un soldatino. Non si può dire ho obbedito a un ordine se l’ordine è un crimine. Chi ha dato questi ordini è un criminale di guerra».