Una strage e delle peggiori. 13 ragazzi eritrei, sette donne e sei uomini di età compresa tra i 13 e i 20 anni, in fuga dal loro paese, sono stati barbaramente uccisi vicino la piccola città di Karora, secondo l’agenzia Gedab News e il Comitato Giustizia per i Nuovi Desaparecidos, a raffiche di mitra dalla polizia di frontiera Eritrea e gettati in fosse comuni di cui si ignora l’ubicazione. La strage sarebbe avvenuta a settembre ma scoperta solo qualche giorno fa.

I bambini facevano parte di un gruppo di 16 giovanissimi che un “passatore-guida” eritreo ingaggiato dalle loro famiglie stava guidando fuori dal paese attraverso il noto “percorso Ghindae-Port Sudan”.
Spesso i trafficanti e i profughi eritrei non riportano immediatamente tali incidenti per paura di ritorsioni. In questo caso la notizia è emersa grazie alla determinazione e coraggio di un padre, Tesfahanes Hagos, ex colonnello dell’esercito eritreo, invalido ed eroe della guerra di liberazione contro l’Etiopia.
Tra i morti ci sono anche tre sue figlie, Arian di 19 anni, Rita di 16 anni e Hossana, appena tredicenne, fuggite per cercare di raggiungere la madre in Canada. Insospettito dalla prolungata mancanza di notizie, l’ex ufficiale ha cominciato a indagare fino a scoprire il massacro.

Un eritreo, che chiede l’anonimato, dichiara a Gedab News: «È tragico! Padre e madre, entrambi Tegadelti – ossia veterani della guerra d’indipendenza dell’Eritrea – hanno speso una vita per liberare il loro paese e ora si trovano con tutti e tre i loro figli brutalmente assassinati».
Il percorso Ghindae è uno dei tanti usati dagli eritrei per fuggire dalla dittatura di Isaias Afewerki. Il tiranno, ex eroe della rivoluzione, ricorre, come afferma anche Amnesty International, ad arresti e detenzioni arbitrarie per reprimere l’opposizione, mettere a tacere i dissidenti e punire chiunque contesti la sua dittatura.

Migliaia di prigionieri politici e di coscienza sono scomparsi mentre erano detenuti nelle carceri eritree in segreto e in isolamento, senza accusa né processo e senza avere contatti con il mondo esterno. Ancora Amnesty ricorda che, senza alcuna eccezione nota, nessun prigioniero è mai stato accusato o processato né ha potuto incontrare un avvocato. Le loro famiglie non sanno dove si trovino esattamente.
Di frequente i detenuti sono tenuti in celle sotterranee o in container di metallo, spesso nel deserto, esposti a calore e freddo estremi. Acqua, cibo e servizi sanitari sono scarsi. Secondo l’Alto commissariato Onu per i rifugiati (Unhcr), il numero di eritrei che ha cercato asilo in Europa è triplicato nel 2014 rispetto all’anno precedente. L’agenzia ha aggiunto che solo ad ottobre scorso circa 5.000 eritrei hanno cercato rifugio in Etiopia e circa 1.000 in Sudan.

Approfondendo la notizia del massacro si è scoperto che quasi tutti i ragazzi trucidati erano in realtà figli di ex militari eritrei. La maggioranza di loro, come afferma ancora il Comitato Giustizia per i Nuovi Desaparecidos, veniva dal Denden Camp, un quartiere-villaggio di Asmara allestito per reduci e invalidi dell’esercito e le loro famiglie.
La tragica fuga di quei ragazzi dimostra la crescente insofferenza al regime anche da parte dei protagonisti della lotta che ha portato all’indipendenza dell’Eritrea. «Una lotta tradita dalla dittatura di Isaias Afewerki che si è insediata ad Asmara dal 1993», denunciano i principali leader della diaspora in Africa, in Europa e in America.
Intanto, il destino dei 3 bambini sopravvissuti è ad oggi sconosciuto. La speranza è che si siano salvati. Molto probabilmente le famiglie dei 13 bambini, tutte ancora residenti in Eritrea, hanno ricevuto la triste notizia da fonti governative. Si può solo immaginare il dolore che ha pervaso la loro vita e quella di coloro che vorrebbero presto vedere cessata ogni violenza e ristabilita l’unica sovranità possibile, quella del popolo eritreo contro ogni dittatura.

Oltre al lutto e alla rabbia, è necessario continuare a resistere e combattere contro quel regime, e tutti i regimi come quello eritreo, se vogliamo continuare, come affermava Vittorio Arrigoni, a restare umani.
Viene in mente, in queste ore tragiche, quel bellissimo passo della poesia di Calamandrei, «Lapide ad ignominia», che recita: «…morti e vivi con lo stesso impegno, popolo serrato intorno al monumento, che si chiama, ora e sempre, resistenza».