Un ragazzo solo con la chitarra contro il mondo. Un diverso come B.B.King. A 9 anni Eric Clapton scoprì di essere stato rifiutato dalla madre e cresciuto dai nonni, un trauma che lo accompagnerà per molto tempo. L’unico suo rifugio è il programma tv Zio Mac che trasmetteva, anche, blues e una chitarra acustica dove, più tardi, proverà a rifare i dischi di Big Bill Bronzy. Il lungo documentario Eric Clapton: Life in 12 bars (in inglese con sottotitoli italiani, nelle sale il 26,27 e 28 febbraio distribuito da Lucky Red), racconta la storia intima e profonda di una grande icona della storia della musica, con l’aiuto di molti materiali inediti – foto e filmati familiari, esibizioni televisive e interviste storiche e recenti – messi a disposizione dallo stesso chitarrista alla regista Lili Fini Zanuck. Le dodici battute del blues sono state la sua unica costante, anche se nella sua vita rocambolesca ha attraversato centinaia di momenti magici e tragici: la sua dipendenza, per anni, dalle droghe prima «andavo in tour portandomi bustoni di cocaina» – ecco come nacque Cocaine- e dall’alcol poi, «sviluppai un’ossessione per Courvoisier e Remy Martin, di prima mattina».

Un’irrequietezza di fondo che gli farà cambiare band a ripetizione (Yardbirds, John Mayall & The bluesbreakers, the Cream, Blind Faith e Derek and the Dominos) e gli farà stringere amicizia con Jimi Hendrix, George Harrison, Roger Waters. Proprio l’amore tormentato della favola persiana di Layla e Majnun sarà l’ispirazione per il travolgente Layla, la sua dichiarazione sonora a Pattie Boyd, la moglie di Harrison, mentre le immagini live di Presence of the Lord (con Stevie Winwood) o in studio per l’assolo di Good to me as I am to you (con Aretha Franklin) sono strepitose così come i diversi filmini girati durante le prove o le registrazioni di brani nella sua villa nel Surrey.

Anche i suoi lunghi periodi bui – quando spendeva un patrimonio in sostanze stupefacenti, vendeva le sue chitarre agli spacciatori (e gli amici come Pete Townshend le ricompravano) o si presentava sul palco strafatto (i suoi leggendari commenti razzisti in concerto nel 1976 a favore del National Front) e veniva bersagliato da bottiglie e lattine dal pubblico e naturalmente la terribile vicenda del figlio Conor, morto a quattro anni cadendo dalla finestra al 54° piano di un grattacielo. Alla fine proprio quella dozzina di misure gli hanno salvato la vita e gli hanno fatto ottenere ben 18 Grammy Awards.