Didier Eribon aveva soltanto quindici anni nel 1968. Abitava nella città dove era nato, a Reims, lontano da Parigi e dai clamori del Maggio. Pure, quella data e quella rivolta contribuirono non poco e nel profondo a cambiare il corso della sua vita, dei suoi pensieri, della sua sensibilità, del suo agire. Il futuro dell’adolescente, che a quell’altezza sembrava a portata di mano con tutta la ricchezza anche emotiva delle sue grandi speranze individuali e collettive, non poteva darsi che all’insegna della scissura ovvero del distacco, netto e irremovibile, dall’esistenza di prima e dunque, in primo luogo, dai valori dalla famiglia, dall’ambiente sociale in cui era vissuto, dalla genealogia. Era necessaria, detto alla brava, la simbolica uccisione del padre. Era anche la violazione della normalità, della fedeltà, dell’obbedienza a un mondo di riferimento che prediligeva la semplificazione, la linearità di un ragionare brutale che tendeva ad annullare la differenza a favore dell’uniformità e del sentire comune. E poco importò al ragazzo di allora, da quel momento in poi, che si trattasse di un universo operaio, sfruttato, umiliato, poverissimo – un universo per il quale era naturale votare comunista e ciecamente aver fede nella forza prometeica del Partito. Didier, l’anno dopo, si darà anima e corpo alla militanza trotzkista, sebbene la doppia identità politica e sessuale risulterà fin da subito per lui di difficile coabitazione, specie in un’epoca nella quale occorreva distinguere tra lotte primarie e secondarie.
Ritorno a Reims (Bompiani «Overlook», traduzione di Annalisa Romani, pp. 215, euro 18,00), sotto questo aspetto, è il tentativo di ripensare criticamente un percorso accidentato e forse di ricomporlo, di chiuderlo una volta per sempre, trovata infine una posizione nel mondo da cui poter guardare ancora una volta indietro, in direzione del ramo ritenuto storto dal quale si proviene e che rimane tuttavia parte essenziale in chi ha voluto o dovuto staccarsene. Che poi sarebbe un modo per cercare una sorta di riconciliazione con il se stesso che si era rinnegato. Una frattura, la chiama Eribon, anzi addirittura un esilio tormentato e tormentoso fatto di domande, di sensi di colpa, di questioni mai chiarite o rimosse. Non a caso il libro prende avvio dalla morte del padre. Eribon decide di non andare nemmeno al funerale. E comunque torna a Reims perché è proprio la definitiva, irreparabile assenza del genitore, confessa, ad avergli «permesso di intraprendere questo viaggio, o piuttosto questo processo di ritorno» verso «uno spazio sociale che avevo allontanato e uno spazio mentale in opposizione al quale mi ero ricostruito».
Siccome il nome e le opere di Annie Ernaux ricorrono assai spesso (insieme, ad esempio, agli Appunti americani di James Baldwin) nelle pagine del memoir di Eribon, è più che lecito credere che quell’esperienza letteraria, così marcatamente e compulsivamente autobiografica, sia stata un modello imprescindibile nella composizione di Ritorno a Reims, o anche un desiderio di verticalità stilistica, di fermezza autoanalitica, quasi che tenendosi stretto a ridosso di quell’interminabile e insistito volersi ritrovare lo sostenesse nell’impresa di spiegare oggi, a sé stesso e ai lettori, quel misto di «odio» e di «disgusto» che fu alla base della rottura con il proprio corpo sociale. Ma Eribon è un filosofo e un sociologo, ha pubblicato due libri su Michel Foucault e altrettanti libri-intervista rispettivamente con Georges Dumézil e Claude Lévi-Strauss, ha scritto saggi su Jean Genet e su Pierre Bourdieu ed è autore di Riflessioni sulla questione gay, del 1999, forse il suo titolo più celebre. Egli stesso ricorda di come, negli anni ottanta, avvertì la necessità di distruggere, ritenendo che l’esito finale fosse in gran parte fallimentare, i dattiloscritti di due suoi tentativi narrativi.
Così Ritorno a Reims è costruito attorno a inserzioni e a nuclei teorici, a digressioni politiche, ad analisi sociali. Passa, in queste pagine, non tanto la storia quanto e di preferenza il sentimento che a partire dal Maggio e fino a oggi ha animato i militanti di un’altra sinistra, una sinistra diversa, eretica, libertaria, sentimentale, immaginosa e desiderante e in qualche modo revisionista – una sinistra, detto altrimenti, che con le consapevolezze e la coscienza dell’oggi pensa che il Partito comunista (nel caso specifico, francese) avrebbe dovuto privilegiare, negli anni della Guerra fredda e anche prima, il tema delle differenze di genere e della liberazione sessuale. Si domanda infatti Eribon: «Dobbiamo ammettere che la censura esercitata dal marxismo, che respingeva fuori dai quadri della percezione politica e teorica un insieme di questioni come il genere e la sessualità, non poteva essere aggirata se non censurando e rimuovendo tutto quello che il marxismo ci aveva abituato a “percepire” come l’unica forma di dominazione? E che, di conseguenza, la scomparsa del marxismo o almeno la sua cancellazione in quanto discorso egemonico a sinistra, sarebbe stata la condizione necessaria per permettere di pensare politicamente i meccanismi dell’assoggettamento sessuale, razziale ecc. e della produzione delle soggettività minoritarie?». La risposta, secondo l’autore, appare implicita, quasi scontata. Chiarito quello che è possibile definire come un disguido dello sguardo retroattivo verso la storia e la lettura ex-post della stessa, il libro di Eribon resta un documento interessante per comprendere l’antropologia anche linguistica del proletariato francese e, per contro, quella di un giovane che ha cercato, non senza turbamenti, un posto fuori da recinto della propria classe. «Transfuga», certo, ma un «transfuga» che forse , a causa di ciò, ha smesso di sorridere e inoltre consapevole di avere meglio saputo apertamente «scrivere sulla vergogna sessuale che sulla vergogna sociale».
Un libro come Ritorno a Reims mette in guardia, forse senza volerlo, dall’avere del marxismo un’idea romantica, astratta, puramente poetica e dunque inefficace e inerte. Sempre concedendo che sia mai stato veramente marxista, quello di Eribon (è lui stesso a sottolinearlo) «era soltanto un modo di idolatrare la classe operaia, di trasformarla in un’entità mitica rispetto alla quale la vita dei miei genitori mi sembrava deprecabile. Loro ambivano a possedere i beni di consumo corrente e io vedevo nella triste realtà della loro esistenza quotidiana, nelle loro aspirazioni a un confort di cui erano stati privati, il segno della loro “alienazione” sociale e al tempo stesso del loro “imborghesimento”». Ah, sembra continuare a ripetere e a esclamare Eribon, se il popolo non fosse stato la mia famiglia! Ah se io avessi introiettato la necessità di combattere le gerarchie sociali da una posizione e da una origine borghese, lontano forse dagli orrendi insulti sessisti e omofobi della cultura o sottocultura che mi stava d’intorno! Come capita a coloro i quali patiscono rimorsi, rimpianti, atti mancati, alla fine l’autore confessa un sobbalzo emotivo nei confronti del padre da poco scomparso, una ulteriore pena: «Con una stretta al cuore ho ripensato a lui, rimpiangendo di non averlo rivisto. Di non aver cercato di capirlo. Di non aver tentato, in passato, di parlargli. Di aver lasciato che la violenza del mondo sociale prevalesse su di me, come aveva prevalso su di lui». Insomma: dobbiamo essere grati a Didier Eribon di averci offerto, con Ritorno a Reims, il ritratto spietato di un’anima bella.