Hissène Habré, presidente del Ciad dal 1982 al 1990, detto «il Pinochet africano» per la brutalità con cui usava regolare ogni dissenso, è stato condannato all’ergastolo per crimini di guerra, crimini contro l’umanità e schiavismo sessuale. È la prima sentenza emessa dal tribunale speciale Cae (Chambres africaines extraordinaires), frutto di un accordo siglato nel 2013 tra Unione africana e Senegal proprio con l’idea di portare alla sbarra Habré. Il quale ora ha 15 giorni per il ricorso.

Intanto questo sembra essere il primo punto messo su una vicenda che si trascina dal 1990, da quando Habré riparò in Senegal dopo il golpe che portò al potere a N’Djamena l’attuale presidente del Ciad, Idriss Deby Itno. Dopo una storia che ha visto protagonista Gheddafi, nemico n°1 di Habré, al pari dell’irriducibile sostegno che quest’ultimo ha ricevuto da Francia e Stati uniti negli otto anni in cui è stato al potere. Tra alleanze e tradimenti, signori della guerra diversamente finanziati e l’un contro l’altro armati, azzardi diplomatici e condottieri allo sbaraglio. C’è anche Khalifa Haftar, uno degli uomini “forti” attivi oggi sul caotico scenario libico. Ieri sul carro di Habré, oggi su quello del presidente egiziano Al Sisi. Libia e Ciad, due destini che s’intrecciano e che Gheddafi avrebbe volentieri unificato sotto un’unica bandiera, la sua. La guerra vide prima prevalere il governo di transizione estromesso da Habré e appoggiato dalla Libia, ma nell’87 l’intervento francese e l’aiuto di Washington ne ribaltarono le sorti. Haftar divenne così il “ribelle” in cui poteva confidare la Cia per eliminare Gheddafi. E Hissène Habré il bastione meridionale della guerra dichiarata al leader libico dalle potenze occidentali.

Il verdetto di ieri è anche un premio alla tenacia dei sopravvissuti alle carceri di Habré che nel 2000 presentarono la prima denuncia contro di lui in Senegal. Dieci anni prima Habré era giunto a Dakar dopo aver svuotato la cassa della Banca nazionale ciadiana, accolto dall’allora presidente Diouf. Il cui successore, Abdoulaye Wade, è stato ancor più abile a barcamenarsi tra mille pressioni, salvaguardando l’impunità dell’ex tiranno. La giustizia senegalese si dichiara presto incompetente a decidere su crimini commessi all’estero e il caso poteva anche chiudersi lì, se nel frattempo Habré non fosse stato denunciato anche a Bruxelles da tre cittadini belgi di origini ciadiane. Con un insperato colpo di fortuna, nel 2012 gli inquirenti belgi mettono le mani sull’archivio della Direzione di documentazione e sicurezza (Dds), la spietata polizia politica di Habré. E sono carte che grondano sangue, tanto da far ipotizzare 40 mila vittime e 200 mila casi di tortura.

Dakar a quel punto aveva tre possibilità: decidersi a processare Habré, rispedirlo in Ciad o estradarlo in Belgio. La svolta avviene con l’elezione di Macky Sall nuovo presidente del Senegal. Ma soprattutto con l’incarico ufficiale conferito al Senegal dall’Unione africana: processatelo. Il Cae viene costituito sul modello della corte che ha giudicato i crimini khmer rossi in Cambogia. Il tribunale speciale (che ha condannato Habré anche per stupro, ritenendo attendibili le denunce di alcune delle donne ridotte in schiavitù alla corte del dittatore) in Africa viene percepito da molti come una risposta alla Corte penale internazionale dell’Onu, accusata di processare solo criminali africani, come se nel resto del mondo fossero tutti bravi ragazzi. Ma questo non ha messo l’Unione africana e il tribunale di Dakar al riparo dalle critiche, in particolare dall’accusa di perseguire i singoli despoti senza considerare appoggi e connivenze internazionali di cui questi hanno beneficiato. Habré ha lasciato l’aula urlando «Viva l’Africa indipendente e abbasso la Françafrique».

Quanto a Idriss Deby, l’uomo che rovesciò Habré nel 1990 con l’aiuto di Gheddafi, per poi riposizionarsi precipitosamente nell’orbita franco-americana, è stato da poco rieletto. Tra le denunce di intimidazioni, abusi e sparizioni che hanno segnato le ultime elezioni, colpisce la sorte subita da decine di militari, eliminati per aver votato il candidato dell’opposizione (nelle caserme la privacy elettorale scarseggia). Per avere qualche speranza di giustizia, i loro familiari dovrebbero come minimo chiedere la cittadinanza belga.