Un varco c’è, nell’abolizione dell’ergastolo ostativo. Ad agevolare la spinosa decisione della Corte costituzionale – attesa per oggi – chiamata dalla Cassazione a pronunciarsi sulla legittimità dell’unica pena del nostro ordinamento che preclude ogni possibile liberazione condizionale, comminata a quei condannati che non collaborano con la giustizia, ci ha pensato la stessa avvocatura dello Stato.

A sorpresa, l’avv. Ettore Figliolia, rappresentante del governo, nell’udienza pubblica di ieri mattina in Consulta ha trasformato le proprie conclusioni rinunciando alla pura e sola richiesta di giudicare inammissibile o infondata la questione di costituzionalità sollevata sul caso di un uomo condannato per mafia che dopo 30 anni di carcere «si ritrova – ha spiegato la sua legale – a non poter avere una valutazione dei suoi progressi da parte del tribunale di sorveglianza» perché si è sempre rifiutato di collaborare.

L’avvocato di Stato ha aperto invece un varco possibile, chiedendo ai giudici di non bollare come incostituzionale le norme (art. 4bis e 58ter o.p.; legge 203/91) ma al tempo stesso di «far decantare ogni forma di automatismo», lasciando al magistrato di sorveglianza la possibilità di giudicare caso per caso e di «verificare in concreto le ragioni di quella mancata collaborazione che è condizione per ottenere il beneficio».

Un cambio di passo necessario perché, come ha spiegato lo stesso avvocato Figliolia, questa causa approda in Consulta (giudice relatore Nicolò Zanon) dopo l’importante sentenza che ha giudicato incostituzionale vietare i permessi premio agli ergastolani ostativi non “pentiti” e ha concesso l’ultima parola appunto al giudice di sorveglianza. Una decisione, quella, presa nell’ottobre 2019 da un Collegio di cui faceva parte l’attuale ministra di Giustizia Marta Cartabia, prima che diventasse lei stessa presidente della Corte costituzionale.

«Il governo – ha puntualizzato l’avvocato di Stato – non può non tenere in debita considerazione sia i principi evocati dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 253 del 2019, che della sentenza Viola della Corte europea dei diritti dell’uomo (incompatibilità dell’ergastolo ostativo con l’articolo 3 della Convenzione europea: condanna per l’Italia del 13 giugno 2019 sul caso di Marcello Viola, recluso a vita al 41bis, ndr)». In questo caso però, a differenza dei permessi premio, secondo l’avv. Figliolia, va tenuta in conto «l’esigenza ineludibile dello Stato di assicurare ordine sul proprio territorio, evitando che chi si è macchiato di gravi reati possa tornare a delinquere mettendo in pericolo la collettività».

Eppure, fa notare l’avvocata Giovanna Beatrice Araniti che rappresenta il mafioso condannato sul cui caso si leva il dubbio della Cassazione, «non è possibile pensare di buttare la chiave per alcune tipologie di detenuti. Farlo sarebbe una resa dello Stato». «Non si può mai rinunciare» alla funzione rieducativa della pena, né tanto meno «etichettare questa categoria di detenuti come non risocializzabili», segnarli con una «lettera scarlatta». Impedire loro di poter «dimostrare di essere diventati persone diverse».

Inoltre, sottolinea l’avvocata Araniti, il sicuro ravvedimento del condannato «non può essere misurato con la collaborazione con la giustizia», come dimostrano i casi di «collaboratori di giustizia blasonati» che una volta scarcerati sono invece tornati a delinquere.

Adesso, ha spiegato lunedì il sottosegretario alla giustizia Paolo Sisto durante un webinar organizzato dall’Università Roma Tre, «attendiamo, per avere chiarezza, la sentenza della Corte sul tema, per potere poi cadenzare i successivi step del percorso legislativo necessario». Sisto ha puntualizzato che il governo sulla giustizia non vuole «appoggiarsi» ai decreti ma procedere con «adeguato dibattito parlamentare».