«Dal mio punto di vista, l’unica pena che non finisce mai è quella che sono costretti a soffrire i familiari delle vittime della mafia». Dopo la decisione del Collegio dei giudici della Grande Chambre della Corte europea dei diritti umani di confermare la condanna all’Italia per il caso di Marcello Viola, il boss di ’ndrangheta condannato all’ergastolo ostativo, pena a vita senza possibilità di riscatto, il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede mostra ancora tutta la sua delusione, mentre il governo sta prendendo le misure della nuova situazione, che al momento contempla solo il rischio di una valanga di ricorsi alla Corte di Strasburgo da parte di altri ergastolani ostativi (al 30 giugno erano più di 1100), con conseguenti risarcimenti a carico delle casse dello Stato.

«La nostra idea è molto chiara – spiega il Guardasigilli, parlando anche a nome dell’esecutivo giallorosso -: nel momento in cui una persona che si è macchiata di gravi delitti, come un boss mafioso, decide di collaborare con la giustizia, in quel momento lo Stato ha la dimostrazione che è stato reciso il legame con la mafia. Quindi, non c’è il fine pena mai che ci viene contestato. È un tema molto delicato, abbiamo le nostre ragioni e il governo sta facendo le sue valutazioni».

Ma il problema potrebbe diventare più pressante per il legislatore quando, il 22 ottobre prossimo, la Corte Costituzionale si pronuncerà sullo stesso tema in un caso analogo, quello di Sebastiano Cannizzaro, per il quale il 20 dicembre 2018 la Cassazione ha sollevato davanti alla Consulta la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 4bis che norma appunto l’ergastolo senza benefici o liberazione condizionale, accogliendo largamente le eccezioni sollevate dall’avvocato Valerio Accorretti che ha assistito il ricorrente. Ecco perché a Palazzo Chigi e in Parlamento si discute già di come eventualmente riformare il regime considerato dalla Cedu «inumano e degradante», senza sconvolgere troppo la giurisdizione antimafia. «Esamineremo anche il tema della collaborazione con la giustizia», aveva detto in mattinata Bonafede.

A sera però, a Porta a porta, il ministro si mostra più cauto, recuperando un po’ le distanze dai toni apocalittici del suo M5S: «Non è che a seguito della sentenza della Cedu si aprono le celle del carcere – ha spiegato dal salotto di Bruno Vespa – È inoltre attesa una pronuncia della Corte Costituzionale. La Cedu dice che lo Stato ha una sua autonomia nella politica criminale, e che non viene toccato il 41 bis». Parla del regime di carcere duro, Bonafede, quello che secondo i suoi estimatori sarebbe servito a combattere le mafie. Le quali però ancora sono vive e vegete, mentre il 41 bis ha esteso il suo campo di applicazione a molte altre categorie di detenuti.