L’omofobia è da ieri legge in Uganda. A legalizzare il sentimento nazional-popolare contro le relazioni dello stesso sesso è stato il presidente ugandese Yoweri Museveni che lunedì ha promulgato un draconiano disegno di legge già approvato dal Parlamento nel dicembre 2013. Una firma in calce congelata a gennaio scorso – su forte pressione internazionale – dietro giustificazione di un pretestuoso dubbio amletico che gli irregolari non-eterosessuali potessero essere tali per un’anomalia genetica più che per una scelta di vita sbagliata.

Motivazioni specchio di ben altre ragioni – politiche s’intende – che avevano però portato Museveni a tenere in stand-by il decreto con la riserva di sciogliere ogni prognosi solo a seguito del verdetto di una commissione ministeriale la quale a sua volta avrebbe dovuto avvalersi del parere scientifico di un team di esperti. Una mossa per cui la settimana scorsa – in aperta provocazione al suo maggior donatore d’oltreoceano, gli Usa – aveva spinto il presidente dell’Uganda a richiedere il parere degli scienziati statunitensi prima dell’atto finale di una ballata politico-popolare che altro non è che l’espressione più manifesta di un attentato ai diritti umani di libertà di espressione intesa in ogni sua forma, non solo verbale.

La legge omofobica è stata promulgata nella residenza della State House di Entebbe, davanti agli esponenti dei partiti politici e ai giornalisti della stampa internazionale ufficialmente invitata per immortalare via etere e web la disfatta della via etica alla governabilità e la vittoria di machiavellistici giochi di potere sempre universalmente validi.

Disfatta di cui sono co-autori tanto il governo dell’Uganda quanto quelli di Stati uniti e Unione europea di cui l’Uganda è il maggior alleato per le politiche di antiterrorismo nel continente africano. Così, laddove l’Occidente si è dimostrato incapace – con i suoi obama di turno – ad andare oltre minacce, dichiarazioni e financo silenzi programmatici di disgusto morale e di ritiro degli aiuti finanziari, Museveni ha incassato una chiara vittoria pre-elettorale guadagnandosi il sostegno della stragrande maggioranza della società civile e dei ciambellani di corte ugandesi, entourage annesso.

La legge, o sarebbe più politically correct dire la licenza antigay, prevede pene detentive a partire da 14 anni di carcere fino all’ergastolo per i casi più recidivi di «omosessualità aggravata». Una legge che sebbene sfrondata – e di questo comunità internazionale gratias – della pena di morte convertita in carcere a vita, di fatto si teme dia mandato alla formazione di ronde civili – chiamiamole pure squadracce – con licenza di correggere e punire. Sì, perché prevedendo la legge pene detentive anche per chi non denuncia chi si macchia del reato di omosessualità, si configura come licenza forcaiola per giustizieri dell’ultima ora e stupratori in branco per correggere donne deviate e uomini sbagliati. Violenze non nuove nella società ugandese, che da ieri grazie al placet di Museveni hanno ricevuto l’investitura istituzionale diventando atto di stato.

Una legge contro cui domenica aveva tuonato Desmond Tutu dicendosi affranto per una normativa che richiama i tentativi dei regimi nazisti e dell’apartheid di «legiferare contro l’amore»: «In Sud Africa la polizia dell’apartheid era solita fare irruzione nelle camere da letto dove i bianchi erano sospettati di fare l’amore con i neri. È stato umiliante per coloro il cui “crimine” era quello di amarsi, è stato umiliante per i poliziotti, è stata una macchia sulla nostra intera società».

La legge è stata invece promulgata sulla base della relazione di psicologi e medici le cui asserzioni – rivela il giornale sudafricano Mail&Guardian – sarebbero state forzate e falsificate a dimostrazione che l’omosessualità non si baserebbe su alcuna predisposizione genetica ma su comportamenti appresi.

Ma dietro tutta la sciarada di rimandi e provocazioni la realtà è un’altra e veste le ragioni del potere e delle logiche militari, facendo di questa ignobile legge semplicemente la proiezione di un microcosmo a sua volta configurazione su scala ridotta e contestualizzata di un framework di rapporti geopolitici regionali e internazionali. Con un Museveni forte del sostegno di Cina e Russia e per questo incurante delle minacce di congelamento dei 400 milioni di dollari che gli versa annualmente l’amministrazione di Washington. Di cui ha mal digerito l’invito nelle passate settimane a ritirare le truppe inviate in Sud Sudan per sostenere il presidente Salva Kiir.