«Giorno dopo giorno, solo su una collina, l’uomo con il ghigno da pazzo rimane perfettamente immobile». Così cantavano i Beatles nella loro Fool on the Hill, il pazzo sulla collina che non piace a nessuno ma non si cura di quello che pensano gli altri, e con i suoi occhi «vede il sole tramontare e il mondo girare su se stesso». E proprio dei «pazzi sulla collina» sono i vincitori dell’edizione di DocLisboa del 2015, che nel concorso internazionale ha visto trionfare Il solengo – documentario su Mario di Marcella, il misterioso eremita della campagna di Vejano, in provincia di Viterbo, di Alessio Rigo de Righi e Matteo Zoppis – mentre nel concorso portoghese il vincitore è stato Rio Corgo di Maya Kosa e Sérgio Da Costa, in cui l’ anziano girovago Silva arriva in un remoto paesino del Portogallo.
E un vecchio «pazzo» è anche uno dei due protagonisti di La Visite di Pippo Delbono, Bobo, che già era comparso in uno spettacolo teatrale del regista e che qui, con parrucca da Luigi XIV, gira per le sale della reggia di Versailles accompagnato dall’attore Michael Lonsdale.

In Rio Corgo invece siamo in un territorio a metà tra il documentario e qualcos’altro: una ricostruzione «metafisica» del mondo mentale del protagonista vagabondo e prestigiatore, che si stabilisce in una casetta tutta rammendata in compagnia di due cani, una gattina beneducata e i fantasmi che vivono dentro di lui – almeno 11, come racconta Siva stesso, «ma tutte delle brave persone».
Il lavoro di Maya Kosa e Sérgio Da Costa resta dunque in equilibrio tra la ricostruzione documentaria della vita di Siva in paese, dall’immancabile moscato al bar all’amicizia con la giovane Ana, e la messa in scena di questo suo magico paesaggio interiore, fatto di fugaci apparizioni e presenze che scandiscono l’approssimarsi della morte e il passaggio di consegne tra l’anziano Siva e la giovane Ana in questo territorio tra due mondi distinti ma comunicanti.

Anche nel concorso internazionale si è distinto un portoghese, Manuel Mozos, che con The Glory of Filmmaking in Portugal (già passato anche a Locarno) ottiene la Menzione speciale della giuria. Il suo breve documentario ricostruisce la vera e propria genesi del cinema nella terra del Fado. Una nascita che avviene per iscritto, su una lettera che lo scrittore Jose Régio inviò nel 1929 ad Alberto Serpa, comunicandogli il suo desiderio di fondare a un gruppo di produzione cinematografica e chiedendo all’amico di farsi prestare da qualcuno una macchina da presa, proprio per avere «la gloria» di dare inizio al cinema in Portogallo.

Per 90 anni non se ne seppe più nulla: non esiste alcuna risposta di Serpa nè nient’altro che documenti l’inizio di una qualche attività. Finché dall’archivio di un collezionista non emergono delle vecchie pellicole, in cui parrebbe essere impresso proprio il tentativo del gruppo di fare le loro prime ardimentose riprese cinematografiche. Una storia nostalgica e una dichiarazione d’amore per il cinema, conclusa dalla foto di Régio insieme a quello che sarebbe diventato il pilastro della Settima Arte in Portogallo, un giovanissimo Manoel de Oliveira, spentosi questo aprile all’età di 106 anni.

Anche Il Solengo opera una ricostruzione, ma di qualcosa di diverso: di un mistero, una leggenda «metropolitana», di quel desiderio di conoscere la storia nascosta dalle mura diroccate di una casa abbandonata. Mario di Marcella, chiamato il Solengo come il maschio del cinghiale che si isola dal gruppo, è il mistero sui cui bordi si muove il documentario: detto di Marcella per distinguerlo dagli altri «Mari» attraverso il nome della madre, eremita che ha passato la sua vita in una grotta in mezzo ai boschi, che era meglio non salutare a meno che non fosse lui il primo a farlo. Perché Mario non tollerava la presenza del prossimo, e ha eletto i boschi a sua dimora?

Ma il vero protagonista del film è il racconto stesso: la tradizione orale che si manifesta negli aneddoti raccontati sul Solengo dai suoi coetanei che invece sono rimasti nell’alveo della comunità. Storie contradditorie, leggende stratificate – Mario è nato in carcere dopo che la madre Marcella ha ucciso il marito a colpi di zappa, o forse era stato il padre di lei, stufo degli abusi che la figlia doveva subire, e lei si è presa la colpa – che sconfinano nel sovrannaturale: la paura che da bambini tutti avevano di Marcella, chiromante che prediceva la fine del mondo e diceva al figlioletto di non fidarsi di nessuno.

Attraverso il pretesto del racconto, Il Solengo segue anche le attività quotidiane di questo gruppo di «aedi» delle campagne laziali, dalle battute di caccia alla preparazione del formaggio e dei salumi, le bevute insieme e lo scambio reciproco di ricordi rigorosamente in dialetto.

Esso stesso a più livelli, il documentario di Alessio Rigo de Righi e Matteo Zoppis è anche un crescendo di suspance mano a mano che si stringe la presa sul mistero del Solengo: un uomo ci conduce nella sua capanna, ci mostra gli attrezzi che Mario si era fabbricato da solo, i luoghi dove passava le sue giornate solitarie. Finché alla fine il film, all’apice del suo avvicinamento, non si appropria anche dello sguardo di Mario di Marcella, in una soggettiva che vaga in mezzo agli alberi che gli hanno offerto riparo per quasi tutta la vita, penetra nei buchi dove si nascondono i serpenti, si posa sugli anfratti della sua grotta.
Fino all’enigma finale: che ne è stato del Solengo? È ancora vivo? E dove? «Non le saprai mai quelle cose», proclama una voce che viene da lontano, e infatti più ci si avvicina al mistero e più questo ci dice solo di non poter essere svelato.

E allora resta proprio la storia – vera o falsa – il racconto che se ne fa, l’essenza della diversità verso cui si leva la curiosità ma anche pregiudizi. Se in paese succedeva qualcosa, tutti davano la colpa a Mario pure se lui non c’entrava niente, dicono i «narratori». Come il pazzo sulla collina dei Beatles, che «non sembra piacere a nessuno: sanno già cosa vuole combinare». Ma lui non se ne preoccupa: «non li ascolta mai, perché sa che sono loro ad essere pazzi».