Eredità, questo potrebbe essere lo slogan con il quale etichettare Mulugeta Gebrekidan. Il percorso storico dell’Etiopia si ritrova nelle sue foto, nei suoi video, nei suoi quadri, nelle sue installazioni e nelle “azioni” politiche che porta avanti ad Addis Abeba per criticare l’azione del governo. La sua visione critica lo smantellamento delle radici etiopi, prese d’assalto dalla speculazione edilizia che, partendo dal suo modello da esportare (Dubai), e dopo aver smembrato intere comunità urbane in Medio Oriente, ora punta decisamente verso il Sud, verso l’Africa subsahariana.

Mulugeta ha fatto mostre e performance in Germania, Usa, Angola, Senegal, Belgio, Italia, Sud Africa …. usando diversi linguaggi artistici (http://mulugetart.tumblr.com/). Bounderies Bound è un quadro su tela avvolto da filo spinato che rappresenta le frontiere degli emigranti, dei rifugiati, di coloro che scappano dalla miserie e dall’ingiustizia. Il video, dallo stesso titolo dell’opera, ne ripercorre il momento dell’esecuzione; un frastuono di vento e di tempesta fa da sottofondo, è il suono delle difficoltà oggettive e ambientali che gli emigranti devono affrontare per arrivare a destinazione. Sul filo spinato ci sono oggetti dilaniati e  macchie di rosso, a rappresentare quei corpi mutilati abbandonati alla morte. Boundaries, confini, linee di demarcazione che segnano il numero interminabile e sempre approssimativo di gente che ha pagato per il sogno di una vita migliore. Chi ce l’ha fatta racconta di torture, di stupri e di violenze nel carcere di detenzione in Libia, in Algeria e in Marocco. Un messaggio forte quello di Mulugeta, che grida nella sordità della comunità internazionale, incapace di affrontare una calamità che non riguarda solo l’Africa, ma un mondo intero impreparato alle sfide del 21° secolo. È possibile ammirare Boundaries Bond presso il museo del CAM di Casoria (NA), dove l’artista è stato ospite di una collettiva “africana”.

Il video Inside out è una denucia contro i poteri speculativi che stanno distruggendo lo skyline di Addis Abeba. Interi quartieri sono stati distrutti, completamente smantellati per far posto ad alti palazzi a specchio, senza alcun riferimento alla storia e alla tradizione dell’Etiopia. Il video, completamente girato in mezzo alla distruzione lasciata dai bulldozer delle compagnie di costruzione,  lega i fili e le vite di tre generazioni. Quella degli anziani,  rappresentata da un uomo di colore ben vestito che legge il giornale in mezzo alle macerie; finita la lettura l’uomo si toglie gli occhiali, i suoi occhi sono un pozzo nero indecifrabile, come indecifrabili sono i cambiamenti intorno a lui. Seguono quattro ragazzi che mangiano una pizza su un tavolo, tra i resti di quella che una volta era una pizzeria; sorridono allegri, incuranti della trasformazione della città. “È infatti la nuova generazione che ha perso il legame con il passato, con la storia del paese, con le sue tradizioni e modi di vivere. Vuole la modernità, incurante di tutte quelle trasformazioni sociali che comporterà, vuole uno sviluppo incapace di portare avanti un benessere collettivo”, afferma Mulugeta. L’ultima parte è dedicata a una coppia di giovani che, seduta sul divano, guarda la televisione in mezzo alle rovine. La donna è incinta, le mani dell’uomo e della donna s’intrecciano sul pancione, sul futuro del nascituro, sulla generazione che verrà e su quello che erediterà dall’attuale presente.

Mulugeta non guarda solo al sociale, ma attraverso la sua arte descrive   il popolo etiope, e forse tutto il  continente africano, proponendo usi e costumi della vita quotidiana che non hanno tempo e che rappresentano la base per costruire il futuro.

Nel corto Unity Mulugeta mette in risalto l’importanza della collaborazione tra uomini. Una canoa ricavata scavando un tronco di albero deve essere trasportata dalla foresta fino al vicino lago di Wenchi, impresa impossibile per un solo uomo. Ecco allora tutta la comunità locale, in segno di rispetto alla tradizione, che si adopera per trascinare il mezzo fino alle acque del lago. La zattera sarà il mezzo di trasporto dell’intera collettività rurale per attraversare il lago, che altrimenti, impiegherebbe quasi due giorni per percorrerlo a piedi via terra.

Sono i suoni che spiazzano e trasportano l’osservatore. Un trasporto a volte cinico, a volte melodico. La costruzione del suono è la perla che mette in risalto la capacità dell’artista di conoscere il proprio lavoro, la dimestichezza con cui maneggia le proprie opere e che lo rende un artista completo nel suo campo. Non sono solo le inquadrature complessive ad attrarre, ma anche la capacità di focalizzare su un volto, trasmettendo tutto il lato umano della solitudine ma anche della forza di lottare. Come è il caso di Yeshitila, un paraplegico che dipinge supino dal suo letto, o di Sentayehu Teshale, un artigiano disabile che fa lavori di manifattura con i propri piedi.

Mulugeta ha la capacità di denunciare attraverso la poesia delle immagini e dei colori.

“Che cosa ti ha spinto verso la pittura? E perché ti sei spostato sulla fotografia e i video?”

“C’è solo un’Accademia di Belle Arti in Etiopia, ad Addis Abeba, non avevo altra scelta che studiare pittura. Tuttora dipingo, anche se meno e in maniera differente. Prima volevo esprimere le mie idee attraverso i quadri, ora no, mi confronto con la tela con la testa libera. Normalmente uso tele di grandi dimensioni, inizio a dipingere, mi immergo e mi perdo dentro il quadro fino a diventarne parte vivente, in una realtà a 3D. Solo alla fine scopro l’immagine completa. Con il tempo, volevo qualcosa che andasse oltre la tela. La “piattezza” della tela stava diventando una limitazione, così ho iniziato a sperimentare con il collage, per avere più spessore, poi ho aggiunto oggetti. Ad un certo punto ho sentito la necessità di muovere verso i video, con i quali mi sono trovato subito a mio agio perché mi danno una libertà maggiore, mi permettono di esprimere idee, di parlare dei valori e dei problemi sociali. Poi ci sono altre forme di arte più facili per esprimersi, come per esempio le performance, perché sono spesso in un luogo pubblico e aperto, dove tutti possono partecipare, interagire e condividere”

“Perché Boundaries Bound?”

“Il dipinto di Casoria è stato solo il primo passo di uno sviluppo successivo in cui il quadro è diventato video e poi performance. L’idea è quella rappresentare, l’impossibilità dell’individuo di muoversi, di emigrare. Nel 2010 ho partecipato alla biennale di Dakar con un lavoro simile a quello che è esposto a Casoria, in aggiunta volevo fare una performance in cui chiudevo l’entrata del museo con del filo spinato, indossavo un uniforme militare e imbracciavo un mitra vero ma scarico. Il presidente del Senegal doveva venire per inaugurare l’apertura della biennale. L’idea era quella di sorprenderlo all’ingresso e dichiarare: “Lei non ha il permesso di entrare, a meno che non abbia un pass”. Poi porre una serie di domande, interrogandolo: “Perché è venuto in questo museo? Che cosa è venuto a fare? …”. Volevo fargli provare la sensazione di essere escluso. Quando si mette un quadro in mostra, l’osservatore lo assorbe in quel momento, ma spesso, appena uscito dal museo, si dimentica dell’immagine. Invece, sperimentando sulla propria pelle un’esperienza, anche solo costruita artificialmente, non è facile dimenticarsene, la si assorbe fino al profondo”

“Mi racconti la performance che hai fatto al centro di Addis Abeba vestito da statua?”

“International workshop in Addis. Il progetto s’incentrava sulla libertà di espressione degli artisti e sulla censura, perché spesso capita che in Etiopia vengano indiscriminatamente sequestrate le camere fotografiche e cancellati video e foto da parte della polizia. La nostra proposta si chiamava Wax and Gold (Cera e Oro), che nella tradizione etiopie significa criticare con ironia e velatamente l’autorità costituita. In Etiopia ci sono molte piazze pubbliche che non sono ben conservate, dove non ci sono né sculture, né fontane … niente di niente. Alcune multinazionali hanno sponsorizzato la rivalutazione di questi luoghi pubblici e hanno messo i loro loghi permanenti, come se la piazza fosse un posto addetto alla  pubblicità. Purtroppo anche gli etiopi hanno incominciato a chiamare la piazza con nome del brand che l’ha ristrutturata, senza pensare di nominarla con il nome di qualche personaggio famoso della nostra storia. Ero vestito come una statua vivente, e sono stato trasportato con un furgone alla piazza “Samsung”. Molte persone vedendomi hanno incominciato a seguirmi gridando se fossi Tedros (eroe etiope del 19° secolo, ndr). I bambini hanno incomiciato a rincorrere il camion. Quando sono arrivato alla piazza sono rimasto fuori, come se lo sponsor commerciale mi avesse scalzato dal posto che mi competeva di diritto. Alla fine della performance sono entranto nel giardino recintato e tutti i bambini mi hanno seguito entusiasti”

“Quale è il leit motiv del progetto fotografico sui resettlement delle famiglie?”

“C’è una massiccia costruzione edilizia che sta avendo luogo ad Addis Abeba, non ce ne rendiamo conto, ma stiamo perdendo i nostri spazi vitali. Costruiscono da tutte le parti, e le persone sono costrette a essere ricollocate forzatamente in altri posti, ad alcuni vengono dati rimborsi mentre ad altri no. Quest’ultimi iniziano così a vivere sulla strada, in tende di buste, legno e cartoni”. Mulugeta segue delle famiglie, le fotografa nel mezzo della desolazione cittadina con i monumenti della speculazione edilizia alle spalle, modelli di ricchezza impiantati nel mezzo della città che sradicano tradizioni, culture, consuetudini abitative … identità. “Siamo quattro artisti che lavoriamo sui cambiamenti di Addis Abeba. Io mi concentro su due famiglie e su due bambine di 11 anni, Betti e Jerry, che vivono in una tenda e vanno a scuola, nel pomeriggio vendono gomme da masticare o fazzoletti in strada per aiutare il budget familiare. Le bambine appartengono alla città ma allo stesso tempo no, come se fossero fantasmi, la loro identità è confusa, sfumata”

“Come è la reazione della popolazione a questo “Modello Dubai” messo in atto in Etiopia? Perché hai girato il video Inside out?”

“Contrastante. Gli architetti etiopi e le comunità come quella di B&J, sono completamente contrari a questo modello speculativo di costruzioni massive, perché la gente è cosciente di perdere la sua identità. I costruttori cancellano tutto ed esodano la gente in un ambiente completamente diverso che non coincide con il loro stile di vita. Per esempio le famiglie di B&J vivevano al centro della città, riuscivano a tirare avanti vendendo piccole cose per soddisfare il fabbisogno quotidiano. Se vengono spostate fuori dalla città, in un contesto alieno, non hanno più la possibilità di avere un reddito, sono condannate alla rovina. Nessuno si può opporre allo sviluppo cittadino, ma deve essere giusto ed equo, rispettare l’equilibrio ambientale e culturale di un luogo. Mi piace la diversità e anche il senso di unità, ma non mi piace vedere solo grattacieli e cemento”

“Pensi ci siano soluzioni?”

“Alcuni architetti all’avanguardia stanno proponendo nuovi piani di urbanizzazione che rispettano le radici del luogo. Lavorano sugli spazi vuoti, perché non si può pensare solo alla costruzione senza pensare agli spazi “negativi”. Questi architetti disegnano prima il vuoto, solo sul rimanente si può costruire. Un architetto americano è andato a Merkato (è il più grande mercato di tutta l’Africa, ndr), ed è rimasto impressionanto per due motivi. Il primo perché là tutto viene riciclato, il secondo perché bisogna contrattare per ogni acquisto e questo dà alle persone la possibilità di parlare, di socializzare!”

“Pensando alla parte finale di “Inside out”, quale è il futuro dell’Etiopia?”

“Nella nostra esperienza come artisti, nelle mostre, come nei seminari di arte e di architettura cerchiamo di esporre le nostre idee e suggerimenti all’opinione pubblica e ai governanti. Sono convinto che questo movimento porterà a una discussione e in un certo modo a un sistema migliore per attuare lo sviluppo. I governanti hanno aperto le porte agli investimenti edilizi, ma c’è bisogno di un piano regolatore urbanistico. Gli architetti sono quelli che patiscono di più questa situazione e cercano di mediare con il governo, senza opporsi, per non essere tacciati di essere contro lo sviluppo del paese. Gli investitori vogliono che gli architetti copino gli edifici tutto specchi costruiti dai cinesi o in stile Dubai. I palazzi sono tutti diversi e non hanno niente a che vedere con l’aspetto paesaggistico dell’habitat della città. Una certa consapevolezza tra i cittadini sta nascendo, perché soffrono il caldo riflesso da tutti questi edifici e per la mancanza di parcheggi. L’attuale generazione invece vive in uno stato di costruzioni urbane permanenti che dà un senso di precarietà. Con il video voglio esprimere la mia speranza che la futura generazione possa avere uno spazio “umano” dove vivere”

“Quale è il panorama artistico in Etiopia?”

“Per diversi motivi l’Etiopia è geograficamente e politicamente isolata, non è facile conseguire un visto per visitare altri paesi vicini. Gli artisti africani di altre nazioni hanno possibilità maggiori di viaggiare e d’incontrarsi, sia per possibilità economiche che per migliore comunicazione stradale. Solo pochi etiopi hanno la possibilità di confrontarsi con altre realtà e la comunità di artisti è molto ristretta ed è concentrata solo nella capitale”

“La tua arte sembra inglobare tutti gli strati sociali dell’Etiopia”

“Non è intenzionale. Quando qualcosa colpisce la mia attenzione, diventa naturale lavorarci sopra. Sul corto del carpentiere disabile che lavora il legno con i piedi, voglio mostrare il suo impegno e le sue capacità, senza che la gente si senta a disagio guardandolo, voglio mostrare la sua forza interiore”

“Quale è il messaggio?”

“In Etiopia le condizioni di vita sono difficilissime, voglio dire alle persone di incoraggiare chi ha problemi motori a non perdere la fiducia, perché possono fare cose straordinarie. Ora sto lavorando su un corto di una donna che non può muovere le mani e cuce con i piedi  riuscendo a fare degli abiti tradizionali etiopi eccezionali. Pensa che con le dita del piede riesce ad infilare l’ago e fa dei pattern (modelli) favolosi”

“Quanto la tua religione Bahai influenza il tuo lavoro?”

“Molto,cerco di vivere la mia vita seguendo gli insegnamenti degli oltre cento libri che la mia religione impartisce. Alla fine siamo tutti fiori differenti nello stesso giardino, il colore bianco della tua pelle non è un ostacolo per me, perché cerco di guardarti nell’anima e non nell’aspetto esteriore ed è quello metto dentro il mio lavoro, senza demarcazioni e … confini”