È il giorno della verità per la Turchia. Il presidente Recep Tayyip Erdogan ha escluso un’estensione dei colloqui oltre il termine sancito dalla Costituzione del 23 agosto. Il leader di Akp punta chiaramente a elezioni anticipate e alla formazione di un governo politico monocolore.

E così è già tempo di campagna elettorale. Erdogan vorrebbe impedire l’ingresso della sinistra filo-kurda in un futuro parlamento. Il ragionamento del presidente turco è che l’elettorato kurdo è stato spinto dalla paura a esprimersi per il partito di Demirtas, sul cui capo pendono accuse di legami con il Pkk che potrebbero determinare lo scioglimento di Hdp. Secondo Erdogan, Hdp non è altro che il braccio politico del partito dei lavoratori kurdi (Pkk). «Il partito controllato da un’organizzazione terroristica sta cercando una soluzione nelle capitali straniere», ha denunciato Erdogan in riferimento alla visita di Demirtas a Bruxelles per incontrare i vertici del Pkk. Tuttavia, il successo di Hdp è stato proprio determinato dall’imponente vittoria elettorale nelle province a maggioranza turca, con il voto di giovani che hanno partecipato ai movimenti di contestazione, operai e società civile. Erdogan ha anche promesso che le operazioni anti-Pkk non si fermeranno. E così sul campo si continua a combattere. Un soldato turco e cinque militari sono rimasti feriti in un agguato del partito di Ocalan a Diyarbakir.

Con l’attacco al Consolato Usa di Istanbul dello scorso lunedì, rivendicato dal Dhkp-c, la politica Usa in Medio oriente è di nuovo nell’occhio del ciclone. Dal dual containment tra Iran e Iraq che ha favorito i sauditi negli anni Ottanta al progetto di Grande Medio oriente di George Bush, gli Usa hanno dimostrato di distorcere le realtà politiche locali. E il rischio è che questo atteggiamento abbia la sua declinazione attuale nell’accordo nucleare con l’Iran e nell’impegno rafforzato degli Usa in Siria con la creazione delle safe-zone turco-americane: un mero bilanciamento dei poteri regionali che lascerebbe invariato lo status quo.

L’Arabia saudita ha carta bianca in Yemen e nelle province siriane sottratte ad al-Assad. La Turchia controlla il Nord della Siria con Aleppo a fare da 82esima provincia (vedi Hatay). Ai kurdi resta il Kurdistan iracheno con libertà di esportare petrolio ma sotto controllo incrociato di Turchia e Iran. Tehran ha le mani su Baghdad e l’ultima parola in Afghanistan mentre sceglie un sostituto credibile di al-Assad che vada bene a Russia e Israele. Tel Aviv controlla Sinai, Gaza e impone a Hezbollah di lasciare la Siria. E l’Egitto ha le mani sulla Cirenaica o di tutta la Libia. Questo schema di finti stati falliti che fa il gioco insieme della Nato e della Russia e affama la popolazione locale, si trasforma in politica interna in repressione del dissenso e più terrorismo.

Ma quale terrorismo? Quello fuori controllo manovrato dalle Intelligence che in Turchia prende forme sconcertanti che richiamano il terrorismo italiano degli anni Settanta con gruppi marxisti, legati ai rivoluzionari brigatisti (tipo Dhkp-c), da una parte, e i fascio-islamisti atei alla Isis o post-Isis alla turca, dall’altra, entrambi infiltrati dagli 007. Tutto a detrimento della sinistra kurda di Ocalan legata a forme di lotta armata tradizionale, ma che ha abbandonato sia le rivendicazioni di uno Stato kurdo sia la retorica anti-americana e dal 2013 pronta a chiudere per sempre con la lotta armata.

Le provocazioni di Erdogan e i bombardamenti motivano i partiti della sinistra giovanile del Pkk, come Ydg-h. E mettono in allerta tutti i partiti della galassia di Ocalan nella regione dal Pjak in Iran al Pyd in Siria, spingendo le comunità kurde (Kck) a riattivare le Forze di difesa popolare (Hpg) e riprendere la strategia dei comitati popolari e delle armi. La cosa più grave è che la repressione colpisce anche il principale risultato delle proteste di Gezi (2013) e il più brillante esempio di sinistra pacifista ed inclusiva che c’è in Medio oriente: l’Hdp di Demirtas che ha sì radici nel Pkk ma ha elaborato un discorso nuovo che fonde i diritti di lavoratori e minoranze.