Al termine di una sessione tesissima, che ha persino registrato una furibonda scazzottata tra i deputati, il parlamento turco ha approvato ieri una controversa mini-riforma della giustizia che accresce il potere di controllo del governo sulle toghe e alza ancora di più il livello della durissima sfida che sta contrapponendo le due anime dell’islam politico turco. Da una parte c’è Erdogan, dall’altra Fetullah Gulen, capo di Hizmet, organizzazione religiosa-culturale con forte influenza su giornali, mondo delle imprese, polizia e magistratura.
È proprio grazie alle sponde che vanta nella polizia e nel corpo giudiziario che Gulen, a sentire Erdogan, avrebbe fatto istruire la maxi inchiesta sulla corruzione che, scattata lo scorso dicembre, ha coinvolto i figli di tre ministri dell’esecutivo incrinandone l’immagine. Le indagini hanno sfiorato anche uno dei rampolli di Erdogan, Bilal.
Il primo ministro ha rilanciato con contrattacchi violentissimi. Prima ha varato una grande purga nella polizia, poi ha ridisegnato in senso favorevole al governo l’assetto di diverse procure. È inoltre filtrata la notizia di una possibile inchiesta sullo «stato profondo» che Gulen, secondo Erdogan, avrebbe costruito nell’intento di dare la spallata all’Akp. Adesso è la volta di questa mini-riforma, che pone un ulteriore freno alle inchieste sulla corruzione. Si compone di poche leggi, ventidue. Ma ha un impatto rilevante.
La misura più contestata stabilisce che il ministro della giustizia possa intraprendere procedure disciplinari nei confronti dei membri del consiglio superiore dei giudici e dei procuratori (Hsyk), l’organo di autogoverno della magistratura. Il tutto configura una forma di pressione, pesante e costante, che a detta dei più limita severamente l’indipendenza delle toghe.
Un altro passaggio sensibile della riforma è l’abolizione delle «corti speciali autorizzate», istituite nel 2004. Sono state lo strumento con cui Erdogan ha scardinato a colpi di condanne la casta militare, principale ostacolo all’ascesa dell’islam politico turco, in quanto guardiana dell’ideologia laicista del fondatore della Turchia moderna, Mustafa Kemal Ataturk. Ora, dopo essersene servito, Erdogan bandisce queste strutture.
Da qualche tempo ha iniziato del resto a guardarle con crescente fastidio e a considerarle una filiazione di Hizmet. La svolta è arrivata quando nel 2012, nel corso di un’indagine condotta da una corte speciale autorizzata sul Kck, organizzazione vicina al Partito dei lavoratori del Kurdistan (Pkk). Saltò fuori che Hakan Fidan, uomo messo da Erdogan a capo dell’intelligence, avrebbe fatto il doppio gioco con i kurdi. Una mossa sporca architettata dai giudici di Gulen: questa la lettura dell’Akp. A lungo il primo ministro e il capo di Hizmet hanno marciato a braccetto, condividendo il progetto di spingere all’angolo il potere militare e dare più spazio all’islam politico, coniugandolo con la democrazia liberale. Raggiunto l’obiettivo s’è aperta una lotta, fisiologica, tra i vincitori.
Gulen ha visto nella gestione della faccenda di Gezi Park uno scatto autoritario di Erdogan, che in precedenza aveva fatto chiudere le scuole di preparazione all’accesso universitario, molte delle quali gestite da Hizmet. Oltre a fare da cassa, servivano a diffondere il verbo del movimento, ispirato da una sorta di calvinismo islamico, nella futura classe dirigente del paese. In risposta Gulen avrebbe dato il via libera all’inchiesta sulla corruzione. Un’indicazione su come potrebbe finire questo scontro arriverà dalle amministrative di fine marzo e dalle presidenziali di agosto. Con quanto scarto vincerà l’Akp? Erdogan diventerà il capo dello stato? Sono le domande poste, in attesa del responso delle urne. Nel frattempo si registra il disappunto dell’Ue per le nuove misure. La legge imbriglia-giudici diluisce altre norme che, al contrario, avvicinavano la giustizia turca a quella comunitaria.