Ieri il presidente Usa Trump si è rivolto alle famiglie dei quattro militari uccisi a Manbij, nel nord della Siria, da un kamikaze dell’Isis, ma non ha detto di più: nessun riferimento al ritiro annunciato a metà dicembre.

Di certo l’attentato è arrivato in un momento e in un luogo affatto casuali, con la Turchia che fa pressioni per sganciare gli Usa dalle Ypg curde e farsi consegnare proprio Manbij, città cruciale per lanciare l’eventuale operazione anti-curda a est dell’Eufrate. Dopotutto è dello scorso giugno la road map turco-americana per cedere Manbij ad Ankara, poi rimasta lettera morta.

A parlare è il campo di battaglia: da una parte funzionari americani confermano la rivendicazione dell’Isis (una cellula dormiente, dice uno di loro alla Cnn), dall’altra la coalizione a guida Usa in Siria e Iraq ha ulteriormente intensificato i bombardamenti contro la zona di Deir Ezzor, al confine iracheno, dove resistono sacche di islamisti del «califfato».

Nel caos della strategia americana il presidente turco Erdogan approfitta dell’attentato per convincere l’alleato che il solo a poter combattere l’Isis è l’esercito turco (sic): si è già tenuto un primo incontro sulla «zona di sicurezza» nel nord della Siria richiesta da anni da Ankara. Si infila anche la Russia, sempre vigile. Con Damasco e curdi che si riavvicinano, Mosca ha annunciato un vertice a tre con Turchia e Iran in vista del viaggio di Erdogan in Russia il 23 gennaio.