Cinque giorni fa, il 16 agosto, un aereo della Turkish Airlines è atterrato a Istanbul. Era partito poche ore prima da Kabul con a bordo 324 passeggeri.

Nascosti tra i cittadini turchi, riporta il quotidiano filo-governativo Hurriyet, c’erano anche i vertici del decaduto governo dell’Afghanistan: il vice presidente Sarwar Danish, il ministro degli esteri Mohammed Hanif Atmar, il capo dell’intelligence Ahmad Zia Sraj, altri tre ministri e qualche parlamentare. In tutto una quarantina di funzionari.

L’operazione era stata messa in piedi in fretta e furia dalle autorità turche il giorno prima, non appena i Talebani avevano fatto il loro ingresso nella capitale afghana. Nelle ore successive il presidente turco Erdogan ha iniziato un corteggiamento soft alla nuova leadership di Kabul: incontriamoci, parliamone. Lo ha ripetuto ieri da Istanbul, uscito dalla preghiera del venerdì: «Se bussano alla nostra porta, saremo aperti al dialogo».

Una posizione pragmatica, tipica della politica estera dell’Akp, che si inserisce stavolta in un terreno non proprio favorevole. Pur definendo negli ultimi giorni la Turchia «una grande nazione islamica sorella» (il portavoce talebano Suhail Shaheen ieri al quotidiano filo-governativo Turkiye apriva ad Ankara per la ricostruzione di un paese distrutto e la cooperazione in educazione, economia ed energia, per poi esaltare «strette relazioni» con i turchi), gli studenti coranici non hanno mai guardato con particolare favore a Erdogan. Ed Erdogan ha ricambiato.

A dimostrarne la vicinanza alla leadership che fino a una settimana fa governava il paese era il previsto passaggio di testimone nella gestione della sicurezza dell’aeroporto internazionale di Kabul, dalle mani degli Stati uniti a quelle turche, una mossa affatto ben vista dai Talebani che il mese scorso avevano ricordato alla Turchia che entro il 31 agosto anche le loro truppe avrebbero dovuto lasciare il paese, pena «serie conseguenze».

Piano congelato, la presa del potere talebana ha cambiato tutto, inaspettata a questi ritmi e sottovalutata anche da Ankara. La fallita assunzione del controllo dello scalo di Kabul dice anche questo: la Turchia non si aspettava un simile sconvolgimento in tempi tanto brevi.

Le cose possono cambiare, e in fretta. Fonti del governo turco riferiscono dell’intenzione di rinegoziare la questione aeroporto con i Talebani: se avesse successo, permetterebbe a un paese Nato di rimanere con 600 truppe (seppur addette alla sicurezza e non al combattimento) in Afghanistan, con tutto il prestigio che dentro l’Alleanza atlantica ne conseguirebbe.

L’interesse comune per un eventuale avvicinamento lo dimostra il compiacente scambio a distanza tra Erdogan e Shaeen, così come le parole del ministro degli esteri Cavusoglu, 48 ore dopo la caduta di Kabul: «Manteniamo il dialogo con tutte le parti, compresi i Talebani. Guardiamo positivamente ai messaggi talebani, vorremmo vederli tradotti in fatti».

Il dialogo la Turchia lo sta già costruendo via Qatar e Pakistan: nell’incontro del 10 e 11 agosto a Islamabad tra il ministro della difesa turco Akar, il premier Imran Khan e i vertici militari pakistani, tema all’ordine del giorno era l’Afghanistan e la necessità per Ankara di veder coinvolte nel governo (qualunque fosse al momento) figure su cui poter giocare un’influenza.

Come spiega un’analisi di Al-Monitor, tra queste spiccano l’ex mujahideen e leader dell’Hezb-e-Islami Gulbuddin Hekmatyar – una foto degli anni ’80 lo mostra con un giovanissimo Erdogan inginocchiato ai suoi piedi – e Salahuddin Rabbani, leader del partito Jamaat-e Islami, già sceso a compromessi con i Talebani dopo la feroce e repentina avanzata.

A monte stanno le tante preoccupazioni legate alla crisi afghana. A partire dalle minoranze turcofone presenti nel paese, che Ankara ha sempre sostenuto – ricordava in un articolo lo scorso giugno Newsweek – anche attraverso il noto ricorso alla cultura e alla religione come strumento di influenza politica: ha aperto scuole turco-afghane, donato borse di studio, realizzato corsi di formazione e centri culturali.

E poi i profughi. Mentre prosegue spedita la costruzione di 295 km di muro al confine con l’Iran, tradizionale transito dei flussi migratori dall’Afghanistan, giovedì scorso il presidente turco è tornato a rivolgersi pubblicamente all’Unione europea: non intendiamo «fare da magazzino di migranti dell’Europa», il messaggio di Erdogan.

Sono già settimane che cittadini afghani riescono ad entrare in Turchia, assestandosi su una media di 1.500 al giorno e aggiungendosi ai 117mila già presenti (anche se Ankara parla di 300mila).

Erdogan tenterà di capitalizzare il possibile. Dopo anni di screzi con Ue e Stati uniti, di avventure militari dalla Libia alla Siria e tentativi affatto mascherati di presentarsi alla regione araba e islamica come indiscusso leader neo-ottomano, il presidente turco vive una crisi interna seria, dettata dalle difficoltà economiche crescenti, dalla svalutazione della lira e dal peso di una politica economica clientelare e inefficiente.

Ergersi a eventuale mediatore della crisi afghana potrebbe risollevarne le sorti politiche (a favor di consesso internazionale e di ampliamento della propria influenza all’Asia centrale) e anche le sorti economiche. Tra ricostruzione e ricchezze sotterranee, l’Afghanistan è una miniera d’oro.