Erdogan e Putin hanno esordito affermando «la pace dipende da noi». L’incontro, terminato tre ore dopo senza rilasciare dichiarazioni, si è tenuto mentre nel nord-ovest della Siria si registrava una recrudescenza degli scontri tra le forze di Bashar Assad, sostenute da Mosca, e le milizie locali filo-Ankara arroccate nella provincia di Idlib.

Come spiegava Michele Giorgio sul manifesto di mercoledì, Erdogan teme di perdere la sue posizioni in una Siria che è sempre più vicina alla riconciliazione con il mondo arabo, visto che si è anche seduta al tavolo con le altre potenze arabe per concorrere al salvataggio energetico del Libano.

Nel grande gioco delle parti tra Mediterraneo e Asia centrale uno degli interrogativi più frequenti è se la Turchia e la Russia sono partner o concorrenti. Visto che le due potenze sono su fronti opposti in Libia, in Siria, nel Caucaso, e che Ankara vende i suoi celebrati droni a Kiev mentre Erdogan ha ribadito all’Onu «che non riconoscerà mai l’annessione della Crimea».

Si può dire che tra Erdogan e Putin ci sia un’intesa tattica che trasforma, a volte, un possibile scontro in collaborazione. Dipende dai momenti e dalle opportunità. Il collante in realtà c’è, eccome: l’ostilità storica tra Russia e Stati Uniti, la diffidenza perenne della Turchia nei confronti di Washington.

Senza volere affondare nella storia e nelle tormentate relazioni tra impero russo e ottomano, Ankara e Mosca hanno iniziato a sviluppare la loro intesa tattica nel luglio del 2016 dopo che venne archiviato l’incidente del 24 novembre 2015 quando i caccia F-16 turchi colpirono un bombardiere russo Sukhoi Su-24 nello spazio aereo ai confini tra la Siria e la provincia turca di Hatay.

Due potenze sull’orlo di un conflitto che vengono calorosamente riavvicinate dal fallito golpe contro Erdogan del 15 luglio 2016. Putin è tra i primi a congratularsi con Erdogan per lo sventato pericolo mentre gli Usa e le potenze europee stanno zitte.

Il leader russo è sempre pronto a tendere la mano a Erdogan mentre Washington diffida di Ankara che pure è un membro storico della Nato e ospita la base Usa di Incirlik, testate nucleari comprese. Con Biden, poi, l’ostilità con il leader turco è radicata. Fu proprio Biden, da vicepresidente di Obama, ad accusare Erdogan nel 2014 di essere stato responsabile dell’ascesa del Califfato in Siria e in Iraq in un discorso all’università di Harvard. Biden si scusò e due anni dopo fece anche un incontro con il leader turco a Istanbul. In realtà Biden sapeva di avere detto la verità ma soltanto a metà: era stata Hillary Clinton, allora segretario di Stato Usa, a incoraggiare Erdogan per facilitare l’afflusso di jihadisti in Siria contro il regime di Assad.

Quest’anno con Biden alla leadership le cose non sono andate meglio. Il presidente Usa ha fatto infuriare Erdogan quando ha riconosciuto ufficialmente il genocidio armeno in una dichiarazione diffusa dalla Casa Bianca: poco prima Erdogan aveva attaccato Biden dichiarando inaccettabile la sua intervista in cui definiva Putin «un killer».

Il resto è cronaca di questi giorni. «Le relazioni tra Turchia e Usa non promettono nulla di buono», ha detto Erdogan parlando all’inaugurazione della Casa Turca a New York, dove si trovava in occasione dell’Assemblea Generale Onu.
E subito Erdogan ha toccato il tasto dolente, visto che Biden si è rifiutato di incontrare Erogan a New York e lo farà soltanto il 30 ottobre, in campo neutro (si fa per dire) in occasione del G-20 di Roma: «Abbiamo comprato gli F-35, pagato un miliardo e 400 milioni di dollari, e gli F-35 non ci sono stati consegnati. Questo comportamento non depone bene né per quanto riguarda i rapporti diplomatici né per le relazioni bilaterali».

Ed ecco che Putin cala l’asso, anzi la batteria anti-missile S-400. Gli S-400 sono paragonabili agli Iron Dome che gli Usa hanno appena fornito Israele per un altro miliardo di dollari.

Chiaro il concetto? La Turchia, senza renderlo esplicito, vorrebbe coltivare una sorta di «parità strategica» con Israele che in Medio Oriente è il capofila del Patto di Abramo con le monarchie del Golfo e altri attori chiave del mondo arabo-musulmano.

I russi sanno bene di cosa si tratta: per decenni la Siria di Hafez Assad cercò, grazie all’Unione sovietica, di raggiungere questa parità strategica con lo stato ebraico nel tentativo di recuperare le alture del Golan perse nella guerra del 1967. Putin ora in qualche modo fa balenare al leader turco quella possibilità mettendo sul piatto le sue batterie in cambio di consistenti acquisti di gas russo.

E’ così che funziona il mondo mentre l’Europa guarda l’orizzonte senza proferire sentenza, con una Germania afona in politica estera, una Francia mesta per la batosta del Patto Aukus, un’Italia impalpabile e un Mediterraneo che ormai è diventato il mare degli «altri».