«La situazione è grave. E la connessione alla rete è sempre peggiore». Solo questo riusciamo a sapere dall’Information center of Afrin Resistance, attivo da ieri per fornire informazioni dal terreno, nell’idea che «l’aggressiva politica turca non sia rivolta contro i curdi ma contro tutta la regione» e che «tutta l’opposizione e la stampa libera in Turchia stiano affrontando la più dura repressione».

Dopo vari tentativi di entrare in contatto, la connessione sparisce. È il quinto giorno di bombardamenti su Afrin, aumentano il numero di vittime e di sfollati e le mire turche. Ieri il capo di stato maggiore di Ankara ha dato per «neutralizzati» 268 terrosti dal 20 gennaio, specificando che si tratta di miliziani curdi e membri dello Stato Islamico.

Le unità di difesa Ypg e Ypj smentiscono tante vittime tra i combattenti e denunciano, al contrario, decine di morti civili. Ma l’elemento che spicca nelle parole dell’esercito è il tentativo di dare una verginità all’operazione contro Rojava: stiamo combattendo l’Isis, questo dice il governo turco. Che è poi la richiesta – reiterata ieri – degli Stati uniti, infognati in una doppia alleanza turca e curda che genera non pochi imbarazzi.

Ma la realtà è diversa: di islamisti ad Afrin non ce ne sono. Ci sono invece decine di migliaia di sfollati siriani da Aleppo, Raqqa, Idlib che oggi sono rifugiati per la seconda volta: sarebbero già 5mila le persone in fuga dalle bombe turche e gli stivali dell’Esercito Libero Siriano.

E saranno ancora di più se i piani dichiarati dal presidente Erdogan si concretizzeranno: «Sventeremo i giochi lungo il nostro confine a partire da Manbij», ha detto ieri aggiungendo di voler «ripulire completamente la nostra regione da questo problema». La città di Manbij, a est di Afrin, è da tempo nel mirino turco: simbolo della lotta multietnica e multiconfessionale, dunque siriana, della lotta all’Isis, è dal 2015 difesa dalle Ypg e aderisce al progetto di confederalismo democratico del resto di Rojava. Non solo: a Manbij stazionano i marines impegnati nell’addestramento delle Ypg; un’avanzata sulla città costringerebbe ad un faccia a faccia tra alleati Nato.

Ma nonostante ciò non è affatto improbabile che “Ramo d’ulivo” si allarghi. Al momento le truppe turche avrebbero assunto il controllo di alcuni villaggi intorno la città di Afrin e di quattro colline strategiche, dove hanno creato quelle che definiscono «zone sicure». Ovvero “ripulite” della presenza dei curdi che però negano: la resistenza, scrivono in una nota, ha impedito all’esercito di stabilizzarsi alla periferia del cantone, nessun reale avanzamento è stato realizzato.

Erdogan ieri ha parlato al telefono con il presidente Usa Trump, il giorno prima aveva chiamato il russo Putin, per aggiornarli sull’andamento di un’operazione che indirettamente Washington e Mosca avallano: la prima chiedendo senza troppa convinzione «una de-escalation», la seconda con il ritiro delle truppe dalla zona.

In casa, invece, Erdogan cerca sostegno in modi diversi: camuffando il numero di soldati uccisi (sarebbero molti di più dei tre dichiarati, le forze curde parlano di 203 morti tra militari e miliziani dell’Els); riducendo in silenzio la stampa critica e arrestando chi protesta (11 i detenuti per una manifestazione non autorizzata che si è tenuta domenica a Istanbul); e promettendo un ritorno economico. A parlarne è stato ieri il ministro delle finanze, Naci Agbal: «L’operazione avrà effetti positivi sull’economia turca nel 2018, [perché] colpirà le instabilità e le tensioni geopolitiche in Siria».