Si è riaperto ieri 11 settembre nel carcere di Silivri ad Istanbul il processo ai giornalisti e ai membri esecutivi del quotidiano Cumhuriyet. Le penne e i dirigenti del più antico giornale turco affrontano accuse di associazione terroristica e propaganda in favore del terrorismo per i quali rischiano fino a 43 anni di carcere.

«TUTTO CIÒ CHE CHIEDO è un giusto processo» ha detto Kadri Gursel, consulente del giornale, accusato di aver manipolato il board editoriale per sostenere l’organizzazione terroristica Feto, acronimo coniato ad hoc dal governo per indicare la comunità dell’ex alleato Fetullah Gulen. «È ironico e tragico che questo giornale venga accusato di essere allineato ad una tale organizzazione quando il governo le ha offerto per anni un porto sicuro» ha ribattuto la difesa. La procura per parte sua insiste nel chiedere la carcerazione di tutti i giornalisti ed i dirigenti sotto accusa, sostenendo che concedere loro la libertà equivarrebbe a consentire loro di inquinare le prove a loro carico.

PROVE CHE LA DIFESA insiste nello smontare pezzo dopo pezzo, a partire dai presunti abusi amministrativi della fondazione di Cumhuriyet, oggetto peraltro di un procedimento amministrativo e non penale ancora non giunto a conclusione, sulla quale però la procura costruisce parte del proprio impianto accusatorio. Ma è soprattutto l’applicazione per smartphone Bylock a tenere banco. I procuratori insistono che i giornalisti avrebbero utilizzato tale applicazione per comunicare con i gulenisti. Tuttavia «…delle 112 comunicazioni incriminate [nei confronti di Kadri Gursel], a 102 di queste non risulta io abbia mai risposto in alcun modo. Le altre 10 erano con altri giornalisti, il che fa parte della professione, peraltro avvenute quando Gursel non era impiegato a Cumhuriyet.

Ogni accusa è semplicemente basata sul nulla» ha dichiarato nell’ennesima strenua difesa l’avvocato di Gursel. Gli avvocati sottolineano come la stessa Corte costituzionale si sia pronunciata ritenendo l’utilizzo di Bylock insufficiente come prova determinante per stabilire la colpevolezza d’un imputato. «La procura ha preparato le imputazioni ricorrendo a giornali concorrenti vicini al governo, considerano quegli articoli alla stregua di prove inconfutabili, quando di inconfutabile non c’è proprio nulla» continuano gli avvocati nell’arringa.

I GIUDICI indagano anche sulle nomine all’interno della direzione editoriale, sull’uso di social media, sui titoli, compito dei titolisti, mai scritti dai giornalisti che pure per essi si ritrovano sotto accusa. Appare sempre più lampante come sia il modo di fare giornalismo ad essere messo alla sbarra.

Chiamati a testimoniare anche collaboratori e giornalisti privi di ogni capacità decisionale nella testata, eppure i giudici insistono per sapere anche opinioni personali e pensieri.

«Ma le opinioni erodono la verità e non costituiscono fatti» ha dichiarato Miyase Ilknur, giornalista della testata. «Si ritiene che Feto abbia individuato in Cumhuriyet il suo megafono ideale, ma queste sono tutte supposizione della procura, non fatti sostenuti da prove».

FA SPECIE agli osservatori che la corte non abbia ritenuto di rivolgere alcuna domanda ad Ahmet Sik, giornalista in prima linea nel processo e colui che forse più rischia tra tutti gli imputati. «La procura mi accusa di aver agito su commissione di Mirach Ural (ritenuto aderente a Feto, ndr), quando al tempo stesso la polizia mi metteva sotto custodia protettiva per timore che potessi essere oggetto di rappresaglia da parte dello stesso Ural» dice Sik citando una delle molte contraddizione nell’impianto d’accusa. «È il governo che agisce come associazione mafiosa, arrestando gli oppositori».