Centouno colpi di cannone accolgono il presidente uscente Recep Tayyip Erdogan mentre, a bordo di un’auto coperta di rose rosse, giunge al parlamento ad Ankara. Entra da presidente della Repubblica parlamentare di Turchia, ne uscirà di lì a poco come presidente di un paese nella sua nuova veste presidenziale. Erdogan ha giurato sulla costituzione da lui riscritta a sua misura, davanti a parlamentari e a un parlamento da lui esautorati, ha promesso un’imparzialità che lui stesso ha stralciato dalla carta costituzionale, sostituita con la figura di un capo di stato che è leader di partito.

METÀ PARLAMENTO in piedi ad applaudire, l’altra metà seduto in silenzio. L’immagine forse più drammatica di un paese che ricomincia dove era stato lasciato: spaccato a metà.
Dall’elenco dei leader dei paesi presenti all’insediamento, capiamo di più di quale sia oggi l’allineamento della Turchia nel mondo. C’è l’alleato del Golfo, Qatar, ci sono i paesi dei vincoli «di sangue», Kirghizistan, i Paesi balcanici dell’impero ottomano di ieri, e quelli africani dell’impero di domani, segno che gli investimenti nel sudest europeo e nel continente africano stanno, almeno in diplomazia, pagando. Presenti anche Russia e Stati uniti, perché è chiaro che la battaglia sul dentro o fuori la Nato è ancora aperta.

SBRIGATA la pratica parlamentare, Erdogan ha poi visitato l’Anitkabir, il mausoleo nel cuore di Ankara con le spoglie di Kemal Ataturk, padre fondatore di quella repubblica parlamentare che oggi viene formalmente consegnata al passato. Nel libro speciale custodito in una delle torri del gigantesco complesso architettonico, Erdogan ha messo per iscritto la propria promessa di condurre il paese verso gli obiettivi del centenario dalla fondazione, che cadrà nel 2023.

Obiettivi ambiziosi, che Erdogan stesso aveva annunciato sette anni fa con il suo piano «Visione 2023», che punta a fare della Turchia la decima economia nel mondo, una potenza globale e membro dell’Ue. Numeri alla mano, obiettivi che sono lontani anni luce, alcuni impossibili, ma Erdogan ha venduto la sua ascesa alla onnipotente presidenza come il trampolino di lancio verso questo miraggio. E il popolo, ammaliato dalle tv a reti unificate a forza, ha deciso di credergli. Dopo il tributo al padre e avversario Ataturk, via verso il maestoso palazzo presidenziale, che Erdogan si è fatto costruire. Qui, accolto da una marcia ottomana e da guardie in armature medievali, annuncia: «Oggi ricominciamo, ci lasciamo alle spalle un sistema (quello parlamentare) che ha imposto un grave prezzo al nostro paese. Stavolta giungiamo al governo con i pieni poteri dell’esecutivo». Parla al plurale, come se sul suo seggio presidenziale si potessero sedere tutti.

SE IL BUONGIORNO si vede dal mattino, all’orizzonte si stagliano nubi cupe sulla «nuova era con Erdogan», come recita l’hashtag di Twitter lanciato dall’ufficio stampa della presidenza. Gli ultimi decreti, con lo Stato di emergenza in vigore, hanno portato al licenziamento di altri 18.000 dipendenti pubblici. In due anni di Stato di emergenza salgono così a 129.000 i licenziamenti da pubblici uffici, mentre oltre 50.000 sono stati gli arresti. E per capire come si gestiranno gli affari di stato d’ora in poi, ecco la creazione del Comitato per la vigilanza sul nucleare, con 5 membri tutti di nomina presidenziale. Stato di emergenza che pare verrà finalmente rimosso, ma non prima di qualche decreto per assicurarsi di non perdere il controllo, sia mai che qualcuno rialzi la testa. Ma ormai l’obiettivo è raggiunto: lunga vita alla seconda repubblica turca, la repubblica dell’uomo solo al comando.