Ieri il presidente Erdogan annunciava orgoglioso di aver ucciso 3mila miliziani dello Stato Islamico tra Siria e Iraq. Numeri che appaiono esagerati vista la debolezza della risposta turca alla minaccia Isis: da luglio 2015, quando diede il via alle operazioni anti-terrorismo, l’esercito di Ankara si è concentrato quasi esclusivamente sul Pkk, nel nord dell’Iraq e in casa, e sul Pyd, suo braccio nella regione kurda Rokava in Siria.

Eppure l’Isis, come una metastasi, è in grado di colpire la Turchia ovunque, nelle grandi città con attentati e al confine sud con i missili. Tra le comunità più massacrate c’è Kilis, città turca a soli 3 km dalla frontiera con la Siria, che da gennaio è target di continui attacchi missilistici. Dall’altra parte del confine c’è al-Bab, comunità siriana occupata dallo Stato Islamico.

I morti sono già 21, di cui 8 rifugiati siriani. Molte case sono state seriamente danneggiate e in tantissimi ormai restano chiusi in casa per paura di essere colpiti. E la rabbia della gente lievita, finendo per sfociare sulle migliaia di siriani che lì hanno trovato rifugio, così tanti da aver superato la popolazione originaria: sarebbero 110mila i profughi, mentre i turchi residenti sono scesi a 70mila unità.

Alla popolazione Erdogan cerca di istillare fiducia: «Non abbiamo mai lasciato senza risposta un attacco contro il territorio e i cittadini turchi – ha detto la scorsa settimana – L’Isis ha sofferto grandi perdite a causa degli attacchi contro Kilis. Se continueranno, ne subiranno ancora».

Ma lo Stato Islamico si avvicina: oltre la rete che divide i due paesi, presidiata dalla gendarmeria turca, gli islamisti fanno arrivare dei pick-up con su lancia-razzi, Katiusha che colpiscono Kilis e poi scompaiono. Nessun aereo turco può alzarsi in cielo per rispondere, a causa degli aperti dissidi con la Russia: l’esercito reagisce con l’artiglieria che però ha spesso come target le unità kurde di Rojava, Ypg, che sono avanzate verso ovest e il fiume Eufrate facendo infuriare Ankara.

La capacità militare dell’Isis è da imputare anche alla Turchia che per anni ha rifornito di armi provenienti dal Golfo i gruppi islamisti anti-Assad. Consegne non certo sporadiche e che hanno coinvolto i servizi segreti del Mit. A pagarne le spese sono stati i magistrati che hanno denunciato i rapporti con gli islamisti e i giornalisti che gli hanno dato voce, in particolare Dundar e Gul: il direttore e il caporedattore del quotidiano Cumhuriyet, sono stati condannati la scorsa settimana a 5 anni di prigione.

La minaccia islamista è però funzionale ai piani turchi: nei giorni scorsi la Turchia ha lanciato un’operazione per la creazione della zona cuscinetto anelata da tempo e che per ora sarà lunga 18 km e larga 8. E ieri Erdogan ha sfruttato Kilis per annunciare che il proprio esercito è pronto a «ripulire» la frontiera sul lato siriano dalla presenza dell’Isis perché, ha aggiunto, «gli alleati, in particolare quelli con le armi più potenti [riferimento agli Usa], non sono in grado di fornirci quello che si serve». Quella che il presidente ha in mente è un’azione militare con truppe di terra: nel fine settimana unità di élite turche sono già entrate in Siria per operazioni mirate contro i lanciatori di razzi islamisti.

Ma l’Isis e i qaedisti di al-Nusra avanzano: ieri il gruppo (sostenuto da Ahrar al-Sham, milizia salafita che viene fatta sedere dall’Occidente al tavolo del negoziato di Ginevra) ha occupato il villaggio a maggioranza alawita di Zara, nella provincia centrale di Hama, e ha preso in ostaggio combattenti pro-governativi. Il giorno prima lo Stato Islamico aveva tagliato la via di rifornimento usata da Damasco tra Homs e Palmira, di nuovo circondata dopo la liberazione: l’Isis sarebbe a soli 10 km dalla città. È intanto finita la tregua su Aleppo: alla mezzanotte di mercoledì sera non è stata rinnovata e si sono registrati i primi scontri.