Approvata da Donald Trump la massiccia offensiva militare turca contro il popolo curdo scattata ieri pomeriggio nel nord-est della Siria, è stata benedetta anche da Jens Stoltenberg. «Spero che qualsiasi iniziativa intrapresa dalla Turchia sia proporzionata e misurata», ha detto il segretario generale della Nato al termine dell’incontro con Giuseppe Conte, a Palazzo Chigi. Come dire: andate avanti senza problemi ma non ammazzatene tanti. Fanno perciò tenerezza gli appelli alla Nato «a fermare la Turchia» lanciati da deputati e dirigenti del M5S, del Pd, della Lega e di tutti gli altri amici fedeli del Patto Atlantico, di cui Ankara è un membro di grande importanza. I curdi si sono scoperti ancora più soli, abbandonati dagli Usa e dall’Europa che li hanno usati come carne da macello in Siria nelle battaglie contro l’Isis, per poi scaricarli una volta giunti sulle rovine del Califfato.

Vittime delle bombe sganciate dagli aerei del “sultano” Recep Tayyip Erdogan – atteso tra qualche settimana a Washington – i curdi hanno compreso, si spera definitivamente, che gli Usa agiscono non a favore ma contro i diritti dei popoli oppressi. La vicenda palestinese avrebbe dovuto insegnarlo anche a loro. E non possono passare inosservate in queste difficili ore a dir poco caute dichiarazioni di Mosca e di Teheran, alleate di Damasco e del presidente Bashar Assad ma anche partner di Ankara nel processo di Astana «per una soluzione politica in Siria».

Ieri appena i soldati statunitensi hanno evacuato le due postazioni frontaliere di Ras al Ayn e Tal Abyad, la Turchia ha dato inizio alla “Operazione fonte di pace” – così l’ha chiamata Erdogan dandone l’annuncio ufficiale con un tweet: è la terza in Siria dal 2016 dopo “Scudo dell’Eufrate” e “Ramoscello d’ulivo”, quest’ultima è scattata nel gennaio 2018 nell’enclave di Afrin – contro il popolo curdo nel Rojava, nel nord est della Siria. Raid aerei e colpi di artiglieria si sono abbattuti nei pressi della diga di Bouzra (Derek), su Qamishlo, Ain Issa, Mishrefa, Tal Abyad, Ras al Ayn (Sere Kaniye) e altri centri abitati. Ci sarebbero state subito almeno 8 vittime civili anche se i turchi affermano di aver preso di mira basi e depositi di munizioni. Un bambino di sei anni è stato ferito gravemente da un bombardamento a Se Girka. «Chiediamo a gran voce a tutte le parti coinvolte di fermare l’escalation delle violenze – ha esortato Filippo Ungaro, un portavoce di Save the Children – e di assicurare in ogni modo possibile la protezione e la sicurezza delle migliaia di bambini, e delle loro famiglie, già sfiniti da una guerra che dura ormai da più di otto anni e la cui vita da oggi è ulteriormente a rischio». Nella zona teatro dell’offensiva, oltre un milione e mezzo di persone hanno già bisogno di assistenza umanitaria, tra cui più di 650 mila sfollati.

Prima e durante l’attacco turco migliaia di civili si sono messi in fuga dirigendosi verso Hasake e l’area territoriale della Amministrazione Autonoma curda nel nord della Siria che Erdogan e i suoi generali vogliono disintegrare. I comandi militari delle Fds e Ypg curde ribadiscono che resisteranno con ogni mezzo possibile a chi vuole allontanarle dal confine, distruggere qualsiasi idea di sovranità curda e mettere fine all’eccezionale progetto politico, il Confederalismo Democratico, che raccoglie consensi ovunque del mondo. I combattenti delle Ypg ieri hanno lanciato sei razzi verso postazioni militari alla periferia della città turca di Nusaybin, senza fare vittime. Sempre le Ypg hanno respinto a Manbij un violento attacco dei mercenari, in gran parte islamisti, dell’Esercito libero siriano – l’Els, ora chiamato “Esercito nazionale”, per anni esaltato da Usa e Europa come una forza «ribelle» impegnata a «portare la democrazia in Siria» – addestrati da Erdogan e pagati, pare, dal ricco Qatar stretto alleato della Turchia. Il Centro di informazione del Rojava ieri ha diffuso un’indagine sulla composizione dell’Els, evidenziando che diversi dei gruppi armati che ne fanno parte sono vicini al jihadismo.

Ad anticipare l’inizio dell’attacco turco era stato ieri mattina Abdel Rahman Ghazi Dadeh, portavoce di Anwar al Haq, una delle milizie armate locali cooptate da Ankara nell’Els. Dadeh ha confermato che almeno 18 mila mercenari prenderanno parte all’operazione militare e ha precisato che 10 mila saranno impiegati a Ras al Ayn, gli altri a Tal Abyad. L’Els avrà un ruolo di primo piano nel controllo della “zona di sicurezza”, lungo il confine, che Erdogan intende costituire in territorio siriano. Terminata la prima fase di “Fonte della pace” dovranno prendere il posto dei militari turchi e presidiare una striscia lunga 120 km e profonda 30 tra Tal Abyad e Ras al-Ayn che farà naufragare, nei desideri di Erdogan, il sogno curdo del Rojava (quasi un terzo della Siria). Questo futuro protettorato turco spezzerà il territorio controllato dalle Ypg. Resterebbe isolata Kobane (Ayn al Arab), simbolo della resistenza curda contro l’Isis, già stretta tra le aree prese dai turchi con le due precedenti operazioni in Siria. Ankara avrebbe promesso a Trump di non attaccarla ma i mercenari filo-turchi premono per occuparla. In una seconda fase Erdogan vuole prendere il controllo di tutta la frontiera e inondare la “zona di sicurezza”, ossia la zona curda, di almeno due milioni di rifugiati siriani attualmente in Turchia. Una regione-cuscinetto che spingerà di fatto il confine fino a Raqqa, la “capitale” del Califfato liberata dai curdi, e a Deir ez-Zor. Un piano di ingegneria etnica – dal costo stimato da Ankara in oltre 26 miliardi – che dopo l’uscita di scena di Trump solo i partner di Astana, Russia e Iran, possono ostacolare.

Resta indecifrabile, al momento, l’atteggiamento di Damasco. La Siria è determinata a fronteggiare l’aggressione turca con «tutti i mezzi legittimi», ha fatto sapere una fonte del ministero degli esteri. Ma che Damasco sia pronta ad andare in guerra con Ankara è da escludere, pur manifestando sostegno ai cittadini curdi sotto attacco. La strada che preferisce è quella di un futuro intervento su Erdogan della Russia che si proclama garante della «integrità territoriale della Siria». In ogni caso l’eventuale soluzione diplomatica non andrà certo nella direzione di una sovranità curda.