Uno dei tratti distintivi della letteratura turca è la centralità della poesia: gli scrittori turchi non si limitano ad affidare ai versi la propria ispirazione lirica, ma tendono a usare la poesia anche per trattare temi civili. Le forze nazionali o Paesaggi umani di Nazim Hikmet ne sono un illustre esempio. Asli Erdogan scrive in prosa, ma la sua pagina ha una tensione poetica fortissima e il motivo risiede proprio nell’ispirazione civile dei suoi testi. Autrice di racconti e soprattutto di articoli e reportages giornalistici, a causa dei quali è stata rinchiusa in carcere per quattro mesi e mezzo durante la repressione scatenata all’indomani del fallito colpo di Stato del 16 luglio 2016 dal Presidente turco (con cui condivide soltanto il cognome, del resto discretamente diffuso nel Paese), Asli Erdogan dà voce alle vittime della violenza di un Potere che non riconosce a chi non vi si sottomette alcuna dignità, si tratti di curdi, armeni, turchi o africani.
Neppure il silenzio è più tuo (Garzanti, efficace traduzione dal turco di Giulia Ansaldo, prezioso glossario sociopolitico con date e nomi che scottano alla fine del volume, pp. 140, € 15,00) raccoglie ventinove articoli in cui la prosa tende alla poesia come la letteratura tende al suo limite, ovvero alla compiuta espressione del dolore umano e dell’ingiustizia che l’ha causato. Espressione compiuta perché libera, a ogni costo. E composta, come il dolore delle madri che da anni manifestano in silenzio ogni sabato per denunciare la scomparsa dei propri figli, come le madri di Plaza de Mayo. Asli Erdogan non grida mai. Non spreca le sue energie nella ricerca della frase enfatica o nella battuta sprezzante. Le lascia ai suoi avversari. Lei è impegnata (sì, completamente engagé) a intagliare la frase nel legno storto dell’umanità, senza l’illusione che il suo intaglio possa raddrizzare o anche solo abbellire il legno, ma con la certezza che a obbligarla fatalmente a quell’antico ingrato lavoro artigianale è il legno stesso con la sua stortura. Il legno turco di oggi, più ricco di infrastrutture, ma più oppressivo, certo. Un legno che assomiglia a quello di tutto il mondo. «Chi cerca il proprio figlio rigira i corpi a uno a uno, con un lamento chiude loro gli occhi. Quel lamento scorre dentro, nel più profondo di noi, scorre nel silenzio della vita… È quella mente il nostro silenzio rugginoso, quando guardiamo le stelle o cerchiamo nei cimiteri coloro che abbiamo amato… Quando versiamo acqua nel mare, perché gli annegati possano berla…» («Visto che», p. 110). Ogni pagina del libro ha questo alto peso specifico, questa temperatura poetica e questa assenza di strepito. Quella che segue può essere presa quasi a manifesto del suo stile: «Dobbiamo forse elencare le frasi che danno la sensazione di essere scritte cinquanta o cento anni fa, riguardo al fatto che la forma più antica, più resistente, profonda e subdola di tirannia è quella che l’uomo esercita sulla donna…? Oppure, con uno sforzo da cavare gli occhi, con una pazienza che si addice così bene al mio genere, dobbiamo sussurrare ‘Ma anch’io sono un essere umano’?» («Uguaglianza, diseguaglianze», p. 63).
Commuove, alla fine di un articolo come Testo del 9 marzo in cui si riflette, il giorno dopo l’8 marzo, sulla violenza subita dalle donne («Dobbiamo accogliere con dolore, ironia o comprensione l’affermazione del Grandecapo, che di fatto ha confiscato il diritto all’aborto a milioni di donne con un ordine soffiato a mezza bocca, quando ha detto: ‘Mi occuperò personalmente della questione della donna così come della questione della sigaretta’?»), leggere un elogio del grande scrittore epico Yasar Kemal, recentemente scomparso: «Non ho sentito da lui una sola frase che non profumasse di saggezza, che non odorasse di terra. Il mio primo premio, il premio intitolato a Sait Faik, l’ho ricevuto [nel 2010, per una raccolta di racconti inedita in Italia, Tas Bina ve Digerleri, ndr] dalle sue mani ma ancora oggi provo molta più gratitudine perché mi portava un pacchetto di sigarette una volta alla settimana, ogni venerdì, quando ero una giovane e squattrinata scrittrice della casa editrice Adam». Pur lontanissima da lui per ispirazione, Asli Erdogan fa venire alla mente il grande poeta satirico ottomano Nef’i, condannato a morte nel 1635 dal sultano Murat IV, che pure lo ammirava. Nef’i (come del resto il quasi omonimo latino Nevio) aveva un imperdonabile difetto: non poteva rinunciare a fare satira. Con la sua  prosa composta, evocativa,  finemente allusiva (eppure per il Potere fin troppo esplicita) Asli non può rinunciare a dire le sue dolorose verità sulla persecuzione dei curdi, sullo sterminio degli armeni, sull’oppressione della libertà di stampa e su ogni ingiustizia politica di cui è testimone.