A quattro giorni dal fallito golpe è in corso la più imponente epurazione di massa dal colpo di Stato del 1980. I cittadini turchi non hanno nemmeno fatto in tempo a tirare un sospiro di sollievo per aver evitato quella tragedia che si trovano adesso a vivere in un clima di terrore.

Il Partito della Giustizia e dello Sviluppo, l’Akp di Erdogan, sta in queste ore regolando i suoi conti con l’acerrimo nemico, ex alleato dal 2007 al 2011, l’imam in auto-esilio negli Stati Uniti, Fethullah Gülen, e con tutti i suoi critici e oppositori.

I numeri sono spaventosi. Quando si sarà consumata la vendetta di Erdogan la Turchia avrà un volto mai conosciuto prima d’ora. In soli quattro giorni ben 15.200 impiegati del Ministero dell’Istruzione sono stati sospesi e messi sotto processo a causa di loro presunti legami con la comunità del predicatore e filosofo, considerata da Ankara un’organizzazione terroristica e ritenuta responsabile del tentato golpe.

Il governo turco chiede da tempo, insistentemente agli Stati Uniti l’estradizione di Gülen. E ieri, il primo ministro Yildirim ha detto che la Turchia potrebbe mettere in discussione la sua amicizia con gli Stati Uniti se non sarà concessa, per poi presentare nuovamente richiesta ufficiale di estradizione.

E in queste ore tra Ankara e Washington – che sta vagliando i dossier inviati da Ankara – si registra una forte tensione dopo che il segretario di Stato americano John Kerry ha dichiarato che gli Stati Uniti non potranno estradare Gülen se non saranno presentate per vie legali prove inconfutabili delle sue responsabilità e che «la Nato vigilerà sul comportamento democratico della Turchia». Nella serata di ieri il presidente Usa Barack Obama ha avuto un colloquio telefonico con Erdogan, proprio per discutere dell’affaire Gülen, negando presunte complicità statunitensi nel tentato putsch.

Ma ad essere colpita ieri non è stata solo la scuola pubblica: sono state ritirate le licenze di insegnamento a 21 mila docenti delle scuole private vicine a Gülen. Sono stati poi sospesi 257 impiegati del Ministero della Giustizia, 1.500 delle Finanze, 393 delle Politiche Sociali e 257 funzionari dell’ufficio del primo ministro. Sospesi dalle autorità religiose del paese, con effetto immediato, anche 492 imam e clerici. Le loro case sono state perquisite perché si cercavano prove a loro carico ed eventualmente a carico di amici e parenti.

Il Consiglio dell’Istruzione Superiore (Yök) ha chiesto le dimissioni di tutti i presidi in servizio presso tutte le università pubbliche e private del paese: 1.577 persone. Le migliaia di funzionari dei ministeri sospesi ieri si aggiungono ai 7.899 agenti di polizia, 614 agenti della gendarmeria, 77 governatori e 246 funzionari degli enti locali detenuti o cacciati nei giorni precedenti. È stato arrestato anche l’ex governatore di Istanbul, Hüseyin Avni Mutlu, che era in carica durante i giorni delle proteste del parco di Gezi.

Il vice primo ministro Numan Kurtulmus ha poi annunciato che sono stati aperti 9.322 provvedimenti giudiziari a carico di giornalisti.

E siamo solo all’inizio. Le opposizioni laiche del paese sono sotto choc. Il leader del maggior partito d’opposizione Chp, Partito repubblicano del popolo, socialdemocratico e di ispirazione kemalista, Kemal Kiliçdaroglu, ha fatto appello al ritorno allo Stato di diritto. «Il popolo turco – ha dichiarato – ha dimostrato che l’unica strada da percorrere e quella civile e non quella militare. I cittadini e tutti i partiti dell’arco costituzionale hanno difeso la centralità del Parlamento e di tutte le istituzioni democratiche e la loro stessa funzione». Ha inoltre rivendicato l’importante ruolo avuto dai media, anche quelli non governativi, nel fallimento del golpe.

«I responsabili dovranno essere assicurati alla giustizia in un giusto processo con tutte le garanzie previste dallo Stato di diritto, al fine di non compromettere la credibilità della Turchia», ha aggiunto per poi esprimere grave preoccupazione per quella che sembra essere diventata una vera e propria caccia alle streghe da parte del governo.

Torna intanto, come nei giorni precedenti, lo spettro della pena capitale. Il presidente Erdogan ieri sera ha parlato in piazza a Istanbul, nel quartiere di Üdkudar, a due passi da casa sua, a Kisikli: una folla immensa lo ha osannato e celebrato chiedendo il ritorno della pena di morte. Il presidente ha già risposto ai sostenitori: se il Parlamento decide per l’introduzione della pena capitale, lui firmerà e sarà reintrodotta. Ed ha aggiunto che in America e in Russia c’è la pena di morte e allora, se il popolo vuole, anche in Turchia ci sarà.

Erdogan continua a fare appelli alla piazza, a manifestare contro i golpisti. Non si è ancora mosso da Istanbul per ragioni di sicurezza. Certamente il successo conseguito nel contrastare il golpe militare non lo sta rendendo più forte ma sicuramente molto più autoritario e al tempo stesso più fragile.

Tutto l’inferno che sta scatenando rischia di rivolgersi contro di lui e di ciò già si intravedono i primi segnali nelle recenti dichiarazioni del primo ministro Yildirim, e cioè lo scetticismo mostrato nell’inserire all’ordine del giorno la proposta di reintroduzione della pena di morte nell’ordinamento penale turco e di coinvolgimento delle opposizioni nel processo di ritorno comune al tavolo delle riforme.