«Come spiegheremo al mondo quello è accaduto a Istanbul? Come possiamo pretendere di voler ancora ospitare i Giochi Olimpici del 2020?». Il sindaco della capitale turca Kadir Topbas manifesta in un’intervista televisiva la preoccupazione di perdere la corsa alle Olimpiadi, considerate dal governo di Erdogan un volano per la rigenerazione di molte delle infrastrutture cittadine. Da realizzare senza alcun confronto con la cittadinanza.

Le proteste contro la cementificazione di Gezi Park, piccolo e finora sostanzialmente sconosciuto spazio verde nelle vicinanze di piazza Taksim, sono diventate il simbolo della prima, grande protesta urbana per un utilizzo partecipato degli spazi pubblici e per una maggiore partecipazione dei residenti alle grandi scelte sul futuro della città. Le potenti trasformazioni in corso a Istanbul, che da sola concentra oltre il 25% del Pil del paese e il 15% degli abitanti della Turchia con oltre 13 milioni di residenti nell’intera area metropolitana, sono da tempo al centro di una serie di piani d’azione calati dall’alto che mirano alla «dubaizzazione» della città: puntare su centri commerciali e appartamenti di lusso per attirare i ricchi visitatori provenienti dei paesi arabi, ai danni dei quartieri popolari abitati dalle fasce più povere della popolazione.

La scarsa attenzione al dialogo con i cittadini non si manifesta solo nei progetti urbani più ambiziosi, come la costruzione del terzo ponte sul Bosforo, del nuovo aeroporto che punta a diventare tra i più grandi del mondo o della moschea gigante di Camlica, ma soprattutto nella riqualificazione di interi pezzi di città, a partire dal centralissimo distretto di Beyoglu. La gentrificazione dell’area intorno a Taksim è un processo che si aggiunge e si sovrappone alla graduale riqualificazione dei gecekondu, abitazioni costruite abusivamente di notte (come indica il loro nome) dai migranti provenienti dall’Anatolia che a partire dagli anni Cinquanta hanno così riempito le aree di vuoto urbano dal centro fino alle periferie, grazie anche a una serie di condoni e parziali regolarizzazioni dovute alla mancanza di alternative in termini di edilizia sociale.
Non sempre i vecchi residenti di queste aree degradate hanno potuto beneficiare dell’edilizia di pregio costruita al loro posto. Nei quartieri con maggiore presenza di migranti, come Sulukule che da secoli ha una forte presenza di famiglie rom, l’istituto di housing pubblico-privato Toki ha proceduto ad espropri di massa seguendo logiche prevalentemente di mercato, senza garantire reali alternative alla popolazione. Si è venuta così a realizzare una politica urbana neoliberale, che ha progressivamente smantellato le forme esistenti di welfare, creando dinamiche di esclusione sociale difficilmente modificabili.

Il quartiere di Tarlabasi è l’esempio più lampante di un’imponente riqualificazione urbana realizzata ai danni dei suoi residenti. Situato a ridosso di Beyoglu, Tarlabasi si è configurato per secoli come luogo di accoglienza e integrazione per i residenti non-musulmani, seguiti nel 20mo secolo da armeni, greci e, a partire dai primi anni Novanta, curdi. Con ben 20mila metri quadrati di territorio inseriti nel 2006 in una vasta area di rinnovamento urbano, il quartiere ha visto la progressiva demolizione degli edifici di epoca ottomana per realizzare strutture di maggiore valore immobiliare, senza alcun tipo di dialogo con la cittadinanza. Nonostante il forte senso di comunità radicato da secoli tra gli abitanti del quartiere, i cittadini non sono riusciti a far sentire la propria voce nella ricostruzione della zona, ridisegnata per accogliere nuove tipologie di residenti senza tener conto degli aspetti sociali.

«Abbiamo bisogno di un modello capace di utilizzare su più livelli l’energia della società civile e che favorisca la collaborazione delle organizzazioni non governative» ha dichiarato ad Hurriyet l’architetto Korhan Gümüs, ispiratore di numerose iniziative di pianificazione partecipata e componente della Taksim Platform che sin dall’inizio ha contestato in maniera pacifica la distruzione di Gezi Park. Riappropriarsi di Taksim square e della aree circostanti assume un elevato valore simbolico soprattutto per l’importanza di questa piazza in termini politici e culturali, luogo simbolo di una privatizzazione selvaggia che ha colmato negli ultimi decenni un sostanziale vuoto amministrativo nella sua gestione. «La piazza è diventata uno spazio di tensione su chi sta dominando lo spazio pubblico» ha affermato Gümüs, che come molti dei manifestanti contesta la deriva autoritaria manifestata in particolare sull’area urbana da un Erdogan che sembra non aver mai dismesso i panni di sindaco di Istanbul, carica che ha rivestito dal 1994 al 1998.

«La lotta per Gezi Park e Taksim square fissa una nuova definizione di cosa vuol dire spazio pubblico – scrivono gli attivisti nel documento finale pubblicato in rete da Müstereklerimiz –. Reclamare Taksim ha distrutto l’egemonia dell’Akp su cosa deve significare questa piazza per noi cittadini».

Resta da capire quali conseguenze lasceranno queste giornate di scontri sui processi di governance urbana della capitale turca. Mentre Erdogan annuncia di voler proseguire nel progetto di ricreazione delle antiche caserme ottomane al posto del Gezi Park ma di non volerle adibire principalmente a centro commerciale bensì a museo o centro culturale, il sindaco Kadir Topbas fa ammenda della mancanza di una campagna d’informazione sui progetti urbanistici in corso e in particolare su Gezi Park.

Basteranno queste buone intenzioni per instaurare finalmente reali meccanismi di partecipazione? Urbanisti e intellettuali reclamano più coinvolgimento per correggere il tiro di decine di progetti urbanistici ritenuti pericolosi per il futuro della città, soprattutto perché all’accordo tra soggetti pubblici e privati non si accompagna un reale coinvolgimento dei residenti dei quartieri cittadini, in particolare nelle zone più povere.

* Cittalia – Fondazione Anci Ricerche