Doveva essere un totale fallimento, la «Davos nel deserto»: aperta ieri a Riyadh, la conferenza Future Investment Initiative è stata spolpata in questi giorni da continue defezioni causate dallo sdegno internazionale per l’omicidio del giornalista saudita Jamal Khashoggi. Assenti Siemens, Jp Morgan, Hsbc, Fmi e governi occidentali.

Eppure, mentre Skynews riportava del ritrovamento di pezzi del corpo di Khashoggi in un pozzo nella residenza del console saudita a Istanbul (ma la procura di Istanbul non conferma), l’erede al trono Mohammed bin Salman teneva botta: nella giornata di apertura ha portato a casa 50 miliardi di dollari in contratti.

Poco rispetto alle aspettative (un anno fa, presentando il piano per la nuova città Neom, pianificava 500 miliardi di investimenti), ma comunque un risultato indicativo della bizzaria di un boicottaggio che non durerà. Solo ieri sono stati siglati nei settori di infrastrutture e trasporti, in quelli energetico e bancario più di 25 accordi con compagnie straniere, Total, Toyota, Hyundai, Halliburton tra le altre. Nessuna novità sul lato militare, l’appello di Berlino per l’embargo non trova sponde: ieri il parlamento spagnolo ha bocciato la proposta della sinistra di bloccare l’export di armi all’Arabia saudita.

Da parte sua Riyadh, che forse aveva sottovalutato le reazioni internazionali, si è trovata costretta ad ammettere tre giorni fa l’uccisione di Khashoggi e a procedere a 18 arresti e alla rimozione dei vertici dell’intelligence saudita, figure vicinissime a Mohammed bin Salman a partire dal consigliere della corte reale Saud al Qahtani (che secondo gli investigatori turchi avrebbe ordinato l’omicidio in diretta, via Skype) e il vice capo dei servizi Ahmed Asiri.

La famiglia reale prova a salvarsi la reputazione, affatto impeccabile in termini di democrazia e diritti umani, ma che all’Occidente andava comunque bene così. A sostenerla è una parte del mondo arabo che si schiera compatta con i Saud, dalla Tunisia al Libano del premier Hariri («rapito» un anno fa a Riyadh e poi rilasciato). L’altra parte, quella tradizionalmente ostile capitanata da Teheran, evita di esporsi.

Chi si è esposto, ieri, con cautela, è stato il presidente turco Erdogan. Con i sauditi i rapporti non sono affatto idilliaci: la vicinanza di posizioni sulla guerra siriana è sempre stata affievolita dall’ostilità saudita per la Fratellanza Musulmana, di cui l’Akp di Erdogan è parte. Ma Ankara non vuole lo scontro: vuole ottenere il massimo da un’opportunità più unica che rara. Ieri, in parlamento, Erdogan ha ricostruito l’intera vicenda, compito finora affidato alle indiscrezioni degli investigatori turchi.

Ha parlato di «omicidio politico», «pianificato giorni addietro». Ha chiesto piena collaborazione ai Saud e che i 18 arrestati siano giudicati a Istanbul. Ha preteso risposte: «Lasciare che alcuni uomini dei servizi se ne prendano la responsabilità non ci soddisfa. La coscienza umana sarà soddisfatta solo quando la persona che ha dato l’ordine e quelle che lo hanno eseguito saranno perseguite». Ha puntato il dito contro i vertici della petromonarchia, ma non contro re Salman o Mbs, a cui dice di credere e di cui accetta di buon grado la cooperazione.

Erdogan non è uno stupido e sta compiendo i passi «giusti»: accusa Riyadh tra le righe, senza esporsi e abbracciando la dichiarazione di innocenza dei regnanti. In piena crisi economica, con la lira ai minimi e l’alleato comune, gli Stati uniti, gelido verso la Turchia, Erdogan ha tra le mani l’occasione di tirare dalla sua parte il rivale regionale.