«Piazza Taksim somiglia più all’opposizione a Putin che ai movimenti di piazza Tahrir o Occupy», assicura al manifesto lo storico dell’Università di Birkbeck, Sami Zubaida.

«Esistono punti di contatto con le rivolte nel mondo arabo: i gruppi sociali coinvolti (giovani, educati, secolari, di classe media, urbani), le richieste (libertà, dignità, difesa dell’ambiente). Ma le differenze sono evidenti: i movimenti in Medio oriente sono contro dittatori, arrivati al potere con golpe o base elettorale limitata. Il premier turco Erdogan invece ha un grande seguito, soprattutto nella penisola anatolica. Ci sono paralleli con i movimenti europei, ma in questo caso il governo turco è più autoritario. Per questo, il dissenso di Istanbul è simile all’opposizione al premier russo. Erdogan controlla il dissenso (un gran numero di giornalisti sono in prigione), e i media nazionali non parlano delle proteste. Il regime ha messo sotto controllo il sistema giudiziario e l’esercito, controlla i centri di potere e non ha rivali. Non solo, per l’ampia base elettorale, non ha neppure bisogno di formare coalizioni per governare».

Malgrado le iniziative legislative dell’esecutivo, il potere dell’esercito resta esteso?

No, dal momento che non può più minacciare un colpo di stato ha perso le prerogative che aveva negli anni Novanta, come difensore del Kemalismo. Per le pressioni, venute soprattutto dall’Unione europea, l’esercito turco non è più il controllore del governo.

Invece cresce una spinta sindacale, di sinistra e di opposizione alla gestione della crisi siriana in piazza Taksim?

In Turchia esiste il conflitto sociale. Il capitalismo reale e politiche neo-liberali hanno dato benefici solo ad alcuni settori della popolazione. E proprio questo ha motivato la protesta: dall’intenzione di sacrificare lo spazio pubblico (eliminare un parco) per lo sviluppo degli interessi della proprietà affaristica (costruire un centro commerciale). Anche la sinistra turca è in piazza, ma la maggioranza dei manifestanti non è organizzata politicamente. D’altra parte, la sinistra degli anni 70 è stata disattivata dal colpo di stato del 1981 e da allora non si è ancora ripresa. Ma i più duri oppositori di Erdogan sono gli Alevi (20% della popolazione turca): una minoranza oppressa, vicina ai partiti di sinistra, ai kurdi, di ispirazione sciita. Gli alevi fanno fronte comune con gli alawiti siriani (minoranza di cui fa parte il presidente Assad, ndr) contro l’alleanza sunnita.

Le proteste sono un’opposizione alle politiche economiche del partito Sviluppo e Giustizia di Erdogan (Akp)?

Ci sono varie categorie di capitalisti turchi: le vecchie classi di industriali, che hanno costruito imperi aziendali, sfidate da piccole imprese, soprattutto in Anatolia. Proprio tra le “tigri dell’Anatolia”, che controllano imprese agricole e tecnologiche, nelle zone rurali della penisola, nei piccoli centri di provincia si trova la nuova borghesia che è la colonna vertebrale dell’Akp. Lo scontro è stato innescato dalle politiche di Erdogan che ha usato il suo potere per dare una nuova forma alla società e vendicarsi sui kemalisti, con il drastico controllo su beni simbolici, come alcool e divertimenti: punti forti della borghesia secolare.

Eppure l’Akp gode ancora di ampio sostegno. Erdogan farà concessioni alla piazza?

Sarei sorpreso se Erdogan concedesse qualcosa alla piazza. Il premier non vuole mostrare cedimenti. L’unico punto debole di Erdogan potrebbe essere determinato dalla perdita del sostegno del movimento religioso conservatore Gülen, di Fetullah Gülen, che nasce proprio dal risentimento rurale verso le metropoli. E dalle critiche del presidente Abdallah Gül o da spinte interne al suo partito che potrebbero portare a un parziale cambiamento delle politiche dell’Akp.

Ma agli Stati uniti non piace questa deriva autoritaria in Turchia.

La Turchia è un alleato essenziale per gli Stati uniti, ufficialmente democratico, aperto al business. Preoccupano gli spettri autoritari del regime che non possono far piacere agli Usa che vedono nella Turchia una componente essenziale dell’alleanza sunnita con Arabia Saudita e Qatar.