A tre giorni dalle elezioni anticipate in Turchia un nuovo attacco alla stampa. Questa volta, nel mirino del governo conservatore e islamista la holding Koza-Ipek, un gruppo vicino al movimento di Fethullah Gülen, ex alleato del presidente Recep Tayyip Erdogan. Bugun e Kanal Turk, due canali televisivi afferenti al gruppo, sono stati oscurati nella giornata di ieri, dopo che la polizia era entrata con la forza nella sede centrale delle emittenti a Istanbul, arrestando un giornalista e disperdendo con lacrimogeni la folla radunata in protesta davanti al cancello.

L’irruzione della polizia è seguita all’ordine del tribunale di Ankara di «commissariare» 22 società della holding Koza-Ipek, accusata di finanziare l’ «Organizzazione terrorista Fethullah» o FETÖ, così come definita dal governo ad interim del partito della giustizia e dello sviluppo (Akp). Tuttavia, secondo l’opposizione, la mossa ha una motivazione politica, giustificata anche dal fatto che buona parte dei commissari appuntati per «controllare» le operazioni delle società messe sotto accusa sono membri dell’Akp o anche consiglieri di ministri dello stesso partito. E qualche giorno prima, sette canali (tra cui gli stessi Bugun e Kanal Turk) sempre vicini al movimento di Gulen, erano già stati banditi dalle piattaforme televisive digitali.

«Una minaccia per tutti»

Ma al di là della resa dei conti tra l’Akp e il movimento di Gulen, in atto già da oltre un anno e mezzo, e che riguarda lo scontro di potere tra due approcci diversi della destra islamista, il fatto che due canali televisivi molto seguiti e fortemente critici nei confronti del governo siano stati oscurati a pochi giorni dalle elezioni (che si annunciano ancora una volta cruciali per il Paese)non fa che confermare una situazione che risulta da tempo allarmante.

«Una tale situazione rappresenta una minaccia anche per gli altri organi di stampa non pro-governativi. Questo esecutivo, se lo ritiene necessario, potrebbe mettere mano anche sui media del gruppo Dogan oppure al quotidiano Cumhuriyet», afferma Gülseren Adakli, docente di scienze della comunicazione presso l’Università di Ankara.

Ma il gruppo Dogan e Cumhuriyet sono già al centro di numerosi attacchi. Diversi giornalisti che lavorano alla Cnn Turk o al quotidiano Hurriyet (entrambi media mainstream del gruppo Dogan) sono al centro di una campagna diffamatoria condotta tramite giornalisti vicini al governo o account non meglio identificati sui social media, una rete di «troll» vicini all’Akp. Il Collettivo della memoria, hafizakolektifi.org, ha redatto una mappa di collegamenti tra numerosi account Twitter, stabilendo l’esistenza di ben 113 profili che gravitano tutti attorno al nome di un consigliere del presidente, Mustafa Varank. Un nome che si è poi scoperto essere legato alla decisione di bandire 7 canali gulenisti dalle piattaforme televisive digitali.

Il noto presentatore televisivo Ahmet Hakan della Cnn ha anche subìto una recente aggressione fisica, mentre il magnate Aydin Dogan, proprietario della holding omonima è stato accusato di supportare il Pkk (Partito dei lavoratori del Kurdistan) da parte di alcuni giornalisti vicini alle posizioni del governo.

Il tutto perchè questi media, durante la precedente campagna elettorale – e anche dopo – hanno continuato a dare spazio e voce all’opposizione e al Partito filo-curdo democratico dei popoli (Hdp), quello stesso partito che alle consultazioni del 7 giugno scorso ha impedito all’Akp (per la prima volta in 13 anni) di formare un governo monocolore.

I collaboratori e il direttore del quotidiano Cumhuriyet,che pochi mesi fa ha pubblicato un articolo con foto dove si accusava il governo di inviare armamenti ai gruppi jihadisti in Siria, si trovano ancora sotto processo. Il quotidiano è stato anche oggetto di una retata della polizia e di un tentativo di lanciaggio da parte di violenti gruppi estremisti anche per la posizione assunta sulla pubblicazione della vignetta di Maometto, dopo l’attentato a Charlie Hebdo.

Ma la lista potrebbe allungarsi, arrivando ad estendersi ad almeno venti siti di informazione vicini al movimento politico curdo e al Pkk o a quelli della sinistra, come alcuni siti di riviste Lgbt e di gruppi atei, oscurati dall’autorità per le telecomunicazioni, al cui capo si trova da un anno un ex membro dell’intelligence turca.

Il selfie del presidente

Senza dimenticare il caso della rivista Nokta, fatta raccogliere e oscurata sulla rete per la pubblicazione di una copertina con il presidente Tayyip Erdogan mentre si fa un «selfie» davanti alla bara di un militare (un rimando al conflitto tra esercito turco e Pkk ripreso nel luglio scorso dopo oltre due anni di tregua), nonché per aver fatto «propaganda» a favore di una «organizzazione terroristica» (il Pkk). Il reato di vilipendio al presidente risulta oramai una delle cause più frequenti di ricorso e riguarda tutti, semplici cittadini, ragazzi minorenni e dirigenti di giornali, come accaduto ad esempio a Bülent Kenes, direttore di Today’s Zaman (un altro organo di stampa vicino a Gulen).

Ma, come afferma il giornalista Umur Talu, «il problema della libertà di pensiero e di espressione non è una questione che riguarda solo l’ambito della scrittura e del giornalismo». Ci sono due questioni che rendono la tensione sociale difficilmente sopportabile. «La prima riguarda la pressione diretta che viene esercitata su chi non vuole sottomettersi a tale pressione. La seconda, e quella su cui ci si sofferma di meno, riguarda la pressione imposta e la minaccia che ha preso in ostaggio – volontariamente o meno – milioni di persone perché costretti ad arrendersi» Intanto, mentre le previsioni dei sondaggi indicano per le prossime elezioni un risultato simile a quello delle consultazioni del 7 giugno scorso, il vice segretario Akp Mehmet Ali Sahin afferma che «se necessario si indiranno elezioni per la terza volta» e si vocifera addirittura che le consultazioni potrebbero essere rimandate, resta un dato di fatto. Oltre la metà della popolazione in Turchia non risulta più disposta ad accettare questa situazione.