Teste spaccate, lacrimogeni, idranti, decine di feriti: il dispotismo di Erdogan contro la libertà di stampa. Venerdì sera, la polizia ha fatto irruzione nella sede del giornale Zaman, a seguito della decisione di un tribunale di commissariare il gruppo editoriale a cui appartiene il più diffuso quotidiano d’opposizione in Turchia. Circa 500 persone tra giornalisti e sostenitori si sono radunati davanti alla redazione del quotidiano, nel quartiere di Bahcelievler, a Istanbul. La polizia ha caricato i manifestanti, poi ha rotto le catene di un cancello, ha scortato all’interno i manager nominati dal tribunale e ha cacciato i giornalisti. Un cordone di polizia ha impedito ai redattori di andare al lavoro, mentre veniva controllata l’identità dei presenti.

I commissari potranno ora assumere il controllo del gruppo e nominare una nuova direzione editoriale più consona alle aspettative del governo. La pratica non è nuova e ha già trasformato in questo modo agenzie stampa e canali televisivi. Nell’ambito delle indagini su quello che Erdogan considera uno stato nello stato e definisce «l’organizzazione terroristica Fethullah Gulen», sono state adottate misure d’eccezione per far tacere tutti i mezzi d’informazione legati al magnate imam Gulen, un tempo alleato di Erdogan, ora suo acerrimo nemico. Anche Zaman, era controllato dal magnate imam. Zaman è il quotidiano più letto in Turchia, con circa 650.000 copie vendute quotidianamente, soprattutto inviate per abbonamento ai sostenitori di Gulen. Ieri, i tre amministratori hanno cominciato col licenziare il caporedattore, Abdülhamit Bilici.

Tutti i contenuti online sono stati rimossi e la connessione internet è stata bloccata. I giornalisti hanno però fatto in tempo a diffondere le foto della repressione subita e hanno emesso comunicati di allerta: «Stiamo attraversando – scrivono – i giorni più bui e cupi per la libertà di stampa, che è un caposaldo della democrazia e dello stato di diritto. I giornalisti vanno più spesso in tribunale che nelle redazioni. Molti degli arrestati e processati ripetutamente sono ancora in carcere». Anche la Ue e la Casa Bianca hanno espresso «forte preoccupazione».

Tempo fa, Erdogan aveva chiesto che Can Dundar, direttore di Chumuriyet, fosse messo all’ergastolo. E ha affermato che la sentenza della Corte costituzionale con la quale hanno ritrovato la libertà due giornalisti di Chumuriyet era da considerarsi illegittima. Nel 2014, Can Dundar e il caporedattore dell’edizione di Ankara sono stati arrestati con l’accusa di «spionaggio e tradimento». Sul loro quotidiano, di orientamento laico, i giornalisti avevano pubblicato un’inchiesta scottante, che aveva documentato il ruolo dell’intelligence turca nel sostegno armato ai gruppi del Califfato che assaltano i curdi e le truppe di Bashar al Assad: «l’autostrada della Jihad», attraverso la quale le armi passano a bordo dei camion il confine con la Siria con la protezione della Turchia.

Come ha documentato l’ultimo rapporto di Amnesty International, la Turchia è uno dei paesi con il più alto numero di giornalisti in carcere. Dopo le elezioni politiche di giugno, i mezzi di comunicazione hanno subito pressioni senza precedenti da parte del governo. Sono aumentate le torture e gli abusi all’interno delle carceri e nelle caserme. E il governo ha «assunto un controllo sempre maggiore sui tribunali penali di pace, che avevano giurisdizione sulla conduzione delle indagini penali, tra cui decisioni sulla detenzione cautelare e preprocessuale, sul sequestro dei beni e sui ricorsi contro tali decisioni».

L’anno scorso, il ministro della Giustizia ha autorizzato 105 procedimenti penali per vilipendio al presidente. Nel novembre scorso, l’uccisione di Tahir Elci, direttore dell’ordine degli avvocati di Diyarbakir e noto difensore dei diritti umani, è stato ucciso dopo aver partecipato a una conferenza stampa. Il 3 sono state uccise due giovani militanti del partito Fronte di liberazione del popolo rivoluzionario.