Una «risposta appropriata» e «un serio avvertimento per dissuadere Assad dall’usare armi chimiche contro la sua gente». Così il portavoce del partito di governo Akp Mahir Unal ha commentato l’attacco missilistico di Usa, Francia e Inghilterra in Siria. Le autorità turche riconoscono quindi l’autenticità del casus belli dell’operazione, l’uso di armi chimiche da parte del regime siriano nell’enclave di Douma.

Come sempre le parole più pesanti sono del presidente Recep Tayyip Erdogan che, dopo aver sostenuto di essere «in possesso di un video che offre riscontro sull’uso di armi chimiche a Douma e di averlo consegnato ai rappresentanti russi», ha dichiarato al termine di un colloquio con Trump che «la fermezza delle forze della coalizione contro l’uso di queste armi chimiche è un segnale positivo». Eppure sia Erdogan che il primo ministro Yildirim si erano impegnato nel tentativo di fermare l’escalation. Yildirim, dopo aver condannato l’uso delle armi chimiche, aveva sottolineato come «non dovrebbero essere intraprese azioni che danneggiano i tentativi di Turchia, Russia e Iran di ristabilire una pace duratura». L’aumento della tensione tra Washington e Mosca infatti mette in grave difficoltà la politica opportunista di Ankara nello scenario siriano: amica della Russia, nemica di Assad, formalmente alleata con gli Usa.

Questa politica del cerchiobottismo, volta a tutelare gli interessi particolari del governo, è refrattaria a prendere una posizione netta in favore dell’uno o dell’altro schieramento. Ma più la situazione sull’asse Mosca-Washington si scalda, più Ankara rischia di dover compiere quella scelta da cui Erdogan vuole stare il più possibile alla larga. Senza dubbio Ankara vorrebbe punire il regime di Assad, ma i legami con Mosca sono tanto importanti quanto fragili: il gasdotto Turkish stream, la centrale nucleare di Akkuyu, l’acquisto dei missili S-400, il semaforo verde russo nei confronti delle operazioni contro i curdi siriani, il tavolo di trattative di Astana.

L’esplicito appoggio alle operazioni militari della notte scorsa rischia di far saltare tutti questi tavoli e rappresenta il tentativo turco di riallinearsi alla coalizione occidentale, a patto che questa torni ad ascoltare le richieste turche, le cui priorità restano un posto al tavolo dei vincitori (chiunque essi siano) e nessun posto per i curdi. Difficile pensare che allinearsi all’attacco a guida americana possa portare qualcosa di utile in tal senso, ma Erdogan deve anche rispondere a un’opinione pubblica ostile ad Assad e solidale con i ribelli siriani, anche delle frange più radicali.

Le frizioni dell’altalenante politica turca in Siria si coagulano nella grande incognita della base di Incirlik, nel sud del paese, dove stanziano truppe Nato e dove nei giorni scorsi si è assistito all’arrivo di diversi velivoli americani.
Subito dopo la notizia degli attacchi, il pubblico turco ha cominciato a interrogarsi sul ruolo di Incirlik. A smentire ogni coinvolgimento ci ha pensato il vice primo ministro Bekir Bozdag: no, la base non è stata utilizzata. A confermarlo un report dell’agenzia Dha (recentemente acquisita dal gruppo Demiroren vicino al governo), secondo cui non si è segnalato alcun traffico aereo rilevante nelle ore dell’attacco.

Rassicurazioni che non hanno impedito alla polemica di incendiarsi nuovamente. Anche in questo periodo di spaccatura totale, la contrarietà popolare alla presenza militare americana a Incirlik è uno dei pochi temi che riesce ad unificare il Paese. Incirlik è l’emblema dell’ingerenza americana. Sono molti i partiti, anche tra le opposizioni a Erdogan, a chiedere che la base sia chiusa alla Nato. Paradossalmente è proprio il partito Akp, pur nel gorgo di una fortissima retorica anti-americana, a non aver mai mosso un passo in questa direzione.