La Turchia torna alle urne: il presidente della repubblica Recep Tayyip Erdogan ha annunciato elezioni anticipate il 24 giugno per eleggere parlamento e nuovo presidente. Elezioni di importanza cruciale, originalmente previste per la fine 2019: concluderanno la trasformazione della Turchia da repubblica parlamentare a repubblica presidenziale, avviata con il contestatissimo referendum del 15 aprile 2017.

Ed è proprio la fretta di chiudere e consegnare al presidente gli enormi poteri che il nuovo assetto costituzionale prevede ad aver convinto Erdogan ad anticipare i tempi: «La Turchia è ancora governata dal vecchio sistema, una malattia. Gli sviluppi in Siria e le incertezze in Turchia devono poter essere superate».

Nel mentre il parlamento ratificava la settima estensione dello stato di emergenza, in vigore durante le elezioni nonostante l’esplicita contrarietà dell’Osce.

I partiti d’opposizione serrano i ranghi e si dicono pronti a rispondere a una mossa dettata dalla paura. Secondo questi, Erdogan accelera i tempi perché dispera di poter reggere il potere fino al 2019. A gravare sulla popolarità del governo, elevata grazie anche alle campagne militari in Rojava, è soprattutto la situazione economica.

Se da un lato il tasso di crescita del Pil resta molto elevato (oltre il 7%), a preoccupare sono la disoccupazione oltre il 10% e soprattutto la lira turca in picchiata rispetto a dollaro ed euro. La Turchia non è in grado di autofinanziare la propria crescita impetuosa e deve ricorrere agli investimenti stranieri, sempre più onerosi a causa della valuta debole. Una situazione che gli economisti ritengono insostenibile nel medio periodo.

Il leader del partito repubblicano Chp Kilicdaroglu ha dichiarato che il 2018 sarà l’anno del ritorno alla democrazia, mentre il partito di sinistra Hdp annuncia di voler affrontare le nuove elezioni con lo stesso spirito del giugno 2015, quando ottenne il più alto consenso nella storia dei partiti filocurdi. Eppure bisogna fare i conti con una repressione che ha messo in carcere i leader e oltre 10mila quadri e attivisti, intaccandone la capacità di mobilitazione.

Un piccolo partito che sta prendendo la scena è Saadet, formazione islamista guidata da Temel Karamollaoglu, che mira a scardinare la supremazia di Erdogan sull’islam politico turco e attacca: «Una data elettorale indice di panico. Il governo ammette che non può condurre il paese per più di altri due mesi».

Al centro dell’attenzione c’è soprattutto il partito di destra Iyi (Ip), formato dalla scissione dei nazionalisti scontenti del sodalizio Erdogan-Bahceli, a cui i sondaggi assegnano una forte capacità di erodere consensi all’alleanza Akp-Mhp. Ma la scelta delle elezioni anticipate rischia di metterlo fuori gioco: la legge turca prevede che un partito debba tenere il proprio congresso nazionale almeno 6 mesi prima di poter partecipare alle elezioni.

L’astro nascente della destra turca Meral Aksener accetta al sfida: «Non pensavo avessero tanta paura di noi. Parteciperemo, abbiamo tenuto il congresso il 10 dicembre, dal 10 giugno possiamo correre». Ma non è così semplice: il Consiglio elettorale supremo (Ysk), lo stesso organo che durante il referendum convalidò le schede non timbrate e consegnò la vittoria a Erdogan, deve ancora pronunciarsi in merito. Complici lungaggini burocratiche, che avevano già portato lo Ysk a rifiutare la registrazione dell’Ip il 14 dicembre scorso.

Il presidente Ysk Sadi Guven ha dichiarato che al momento non è dato sapere quali partiti potranno concorrere e che si dovrà attendere il pronunciamento delle corti competenti. L’anticipo delle elezioni rischia di togliere dai giochi la formazione forse più temuta da Erdogan.