Ad una settimana dall’attacco al cantone di Afrin, le truppe di Ankara sono ancora bloccate a pochi chilometri dal confine. La strategia approntata dall’esercito turco sembra voler aprire fronti multipli di combattimento, per disperdere le le forze di difesa curde. I guerriglieri dell’Esercito libero siriano (T-Fsa), sostenuto da aviazione, dall’artiglieria e truppe speciali turche, hanno catturato alcune aree a nord ed ovest del cantone, ma le forze di difesa popolare (Ypg) hanno saputo finora ribattere colpo su colpo, riconquistando alcuni dei villaggi inizialmente perduti e distruggendo alcuni carri armati turchi. A complicare l’offensiva di Ankara il brutto tempo, che ha reso il territorio impraticabile per un’avanzata rapida. Allo scontro bellico si affianca quello mediatico sul numeri dei caduti: le fonti turche rivendicano oltre 390 perdite tra le fila dello Ypg, mentre quest’ultime affermano di aver eliminato oltre 300 miliziani dell’Fsa.

Le fila dei combattenti curdi si sono rinforzate con l’arrivo di volontari internazionali e di fazioni dell’Fsa ostili all’intervento turco.

TRA GLI OBIETTIVI politici dell’operazione militare turca c’è la rottura dell’allenza tra Sdf-Ypg e l’America. Da Washington continuano ad arrivare indicazioni contrastanti, tra tentativi di conciliazione con Ankara e sostegno ai curdi della Rojava. Un segnale importante è la revisione della pagina del Factbook della Cia dedicata alla Siria, aggiornata il 18 gennaio, dove il Pyd viene riconosciuto come ramo siriano del Pkk: un cambiamento rilevante rispetto alla posizione ufficiale di Washington sino ad oggi, che separava nettamente le due organizzazioni, con grande irritazione della Turchia. Fa però da contraltare un comunicato della Casa bianca che ha riferito di una telefonata del 24 gennaio in cui il presidente americano Trump avrebbe chiesto al presidente turco Erdogan di limitare le proprie azioni militari nel nord della Siria ed evitare di mettere a repentaglio la vita di civili e rifugiati.

ERDOGAN dal canto suo pare intenzionato a dare via libera anche all’operazione parallela verso est, fino al confine tra Turchia, Siria ed Iraq. Il ministro degli esteri turco Mevlut Cavusoglu ha intimato a Washington di ritirare immediatamente le proprie truppe dalla zona di Manbij, obiettivo esplicitato più e più volte. Ma se Afrin, nonostante la strenua difesa delle Ypg, è isolato e impossibilitato a ricevere rinforzi, Manbij rappresenta tutta un’altra questione: innanzitutto perché tutte le Sdf accorrerebbero in sua difesa, ma soprattutto perché sul campo ci sono consiglieri e truppe americane che addestrano le Sdf: per i carri e i caccia turchi aprire il fuoco significherebbe sparare direttamente sui propri alleati Nato, generando una crisi senza precedenti. Se le truppe americane venissero invece ritirate, significherebbe che la prova di forza di Ankara ha avuto successo e che la Rojava non può aspettarsi da Washington alcun reale sostegno.

LA COSA FAREBBE molto probabilmente piacere a Mosca, che su Afrin continua a mantenere un silenzioso riserbo che è stato interpretato come un via libera alle operazioni turche. Gestendo l’accesso alla Siria, e soprattutto al suo spazio aereo, la Russia cerca di controllare le tempistiche della campagna bellica turca, sincronizzandola con le operazioni ad Idlib e a Deir er-Zor e dando tempo all’esercito di Assad di consolidarsi sia nei confronti dei ribelli, sia della partnership curdo-americana.

Con l’avvicinarsi ai colloqui di Sochi, arriva al nodo del pettine la questione della presenza del Pyd, ovviamente osteggiata da Ankara. Ufficialmente il Pyd resterà escluso: lo ha confermato Badran Jia Kurd, consigliere dell’amministrazione della Rojava, secondo cui non è stato recapitato alcun invito ufficiale.

Ma se i curdi non entrano dalla porta principale, lo faranno probabilmente da quella di servizio, come suggeriscono le parole della portavoce del ministero degli esteri russo Maria Zakharova: «Abbiamo invitato le rappresentanze curde, che devono ora accettare un ruolo attivo nell’evento».