Che la tregua nel nord-est siriano sia costantemente violata lo raccontano i lanci delle agenzie curde: ieri le forze turche hanno attaccato il villaggio di Rajm, a nord di Ayn Issa, riporta Anf. Ferita un’intera famiglia, i due genitori e i quattro figli, tra i 4 e i 10 anni: sono stati ricoverati all’ospedale di Raqqa.

È invece l’Osservatorio siriano per i diritti umani (basato a Londra e dal 2011 opposizione al governo di Damasco) a riportare del rapimento e l’uccisione di tre infermieri dell’ospedale di Siluk da parte di miliziani islamisti pro-Ankara. I corpi sono stati ritrovati ieri.

Violazioni continue, del cessate il fuoco e dei diritti umani. Eppure il principale responsabile, il presidente turco Erdogan, si occupa d’altro. Ieri ha chiesto agli Stati uniti, alleati sbiaditi, di consegnargli Mazloum Abdi, comandante capo delle Forze democratiche siriane (Sdf), la federazione multietnica e multiconfessionale che dal 2015 difende il Rojava.

È la risposta di Ankara a una lettera del presidente Usa Trump (datata 11 ottobre, due giorni dopo l’inizio dell’operazione «Fonte di pace») in cui la Casa bianca riportava la volontà di Abdi di negoziare.

Da allora è successo di tutto: 300mila sfollati, centinaia di uccisi e l’accordo russo-turco che ha sancito l’occupazione turca di un pezzo di Rojava, 120 km per 32 da Tal Abyad a Ras al Ain. Giovedì notte Erdogan ha ordinato al suo ministro della Giustizia di muovere i «passi necessari» alla consegna di Abdi alla Turchia, citando «l’accordo di estradizione con gli Usa».

Abdi è in Siria, non negli Stati uniti. Ma la richiesta è girata a Washington per un motivo preciso: l’appello dei senatori Usa al segretario di Stato Pompeo di concedere al comandante curdo un visto immediato per poter descrivere al Congresso la situazione sul terreno.

Ma a Trump interessa ben altro: ieri, come anticipato nei giorni scorsi dal presidente, il Pentagono ha fatto sapere che invierà altri soldati e carri armati nel nord-est siriano a protezione dei giacimenti di petrolio.

Prima ritira le truppe (mille marines hanno lasciato il Rojava la scorsa settimana e sono entrati in Iraq) e ora pensa di inviarne delle altre. In coordinamento, dice il segretario alla Difesa Mark Esper, con le Forze democratiche siriane per impedire che i pozzi finiscano in mano all’Isis.

Dichiarazioni che sono il segno del caos che regna alla Casa bianca e che ha permesso in pochi anni alla Russia di sostituirsi fisicamente e diplomaticamente agli Stati uniti in Medio Oriente. Per le popolazioni locali sembra cambiar poco: chiunque arrivi si prende il suo pezzo di Siria.

Si muove anche la Nato, di cui la Turchia è secondo esercito per grandezza. Ieri il segretario Jens Stoltenberg ha accolto la proposta della Germania di inviare una missione internazionale sotto l’egida dell’Onu per una zona di sicurezza tra Siria e Turchia.